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Vivere nella polvere o diventare polvere

Un racconto di Stella Oscura

«Forte, vero?», le chiese Valxis.

Esmyr lo guardò negli occhi. Immaginò che anche le stelle, riflesse nel pozzo, stessero brillando, ma da lassù non riusciva a vederle.

«Come l’hai trovato?»

Erano neri, come il cielo più cupo. Come la melma nei campi alluvionati e abbandonati a sé stessi. Come la pece rovente che, dicevano, sarebbe volata giù dalle mura se solo avessero provato a trasgredire le leggi di Lumecha.

Il ragazzo le si avvicinò e atterrò accanto a lei. Iniziarono a parlare solo quando le loro ali smisero di ronzare. Anche quelle di Esmyr stavano vibrando, ma erano così piccole da impedirle di volare. A volte, pensava, le sarebbe piaciuto provare.

Le stampò un bacio sulla bocca e poi sussurrò: «Perché i pozzi sono pieni se non piove mai e noi non possiamo bere quell’acqua?»

Negli occhi della ragazza balenò il lampo della consapevolezza e della paura: intuì cosa volesse dirle e provò a fermarlo. Fu inutile.

«Val… Ci sentiranno».

«La tengono lì per un altro motivo».

«Non dire niente…»

Esmyr premette le mani sulle sue guance.

«Non dire niente…», ripeté la ragazza.

«C’è qualcosa là sotto. E secondo me porta là fuori».

«Non c’è nulla, lo sai. Non scherzare», provò a bloccarlo.

«Non sono mai stato così serio, tranne quando ti ho detto che vorrei vivere per sempre con te».

Colpita dritta al cuore. Più che affondata sul fondale marino, Esmyr si sentiva su una zattera in balia delle correnti impetuose e impietose della burrasca.

«Se mentono su questo, sui pozzi pieni, potrebbero farlo anche sul resto».

Esmyr abbracciò forte Valxis e lo pregò: «Basta, Val. Vuoi che ti prendano?»

«Potrebbe esserci davvero qualcosa là sotto», le sussurrò.

«Lo so».

«Qualcosa che porta là fuori».

Le ali del ragazzo-libellula ripresero a ronzare in un moto scomposto, involontario.

«E io ho intenzione di scoprirlo», disse scostandole i capelli per avvicinarsi di più al suo orecchio.

Il viso di Valxis si inumidì delle lacrime di lei.

«Non farlo», lo implorò, ma la sua voce era ormai poco più di un soffio. Forse non l’aveva udita, ma le mancava il coraggio di ripetere quelle parole. Lo strinse più forte e aggiunse: «Vorrei restare così fino…»

«Anche io. Ma non qui».

Esmyr pensò che quello fosse l’amore: una carezza poco prima di essere uccisa. Una leggera sensazione di torpore prima di morire assiderata. Si scosse, sciolse l’abbraccio di Valxis. Dette la colpa al suono della prima Luna che stava suonando poco distante, sulla piazza, e che li aveva appena sorpresi impreparati e commossi, ma sapeva che il motivo era diverso. Qualcuno lo avrebbe potuto chiamare sentimento; qualcun altro presentimento.

Gli occhi scuri di un calabrone meccanico, nascosto alle loro spalle tra i detriti di una casa, registrarono la scena.

***

Anche Pokma vestiva di scuro: tutti gli abitanti di Lumecha, ormai, lo facevano. Si illudevano che il nero nascondesse meglio i segni di sporco con cui la povertà aveva decorato le loro divise: tutte uguali, perché al di sotto delle Mura c’erano solo uomini e donne, insignificanti puntini scuri sulla terra rossa. Non potevano far altro che sporcarsi piedi, caviglie e ginocchia, e supplicare per la propria salvezza.

Avrebbe preferito vesti colorate, ma era importante obbedire ed essere servizievoli con i calabroni. Non era solo la gratitudine ad animarla, ma anche la consapevolezza che quando hai qualcosa da nascondere, qualcosa che se uscisse allo scoperto potrebbe rovinarti la vita, è bene scivolare come un’ombra tra le ombre nella notte. Sfumare i propri confini con quelli altrui, rendersi un unico popolo, un unico suddito, senz’altra volontà che quella di compiacere chi è al comando.

E quello che Pokma si sforzava di celare era l’ignobile eredità che suo marito aveva destinato alla loro unica figlia: dei geni corrotti, una deformità del corpo che con ogni probabilità avrebbe avuto strascichi pesanti anche sulla mente. Esmyr e le sue ali. Esmyr e il suo desiderio di volare via.

Mentre la ragazzina era ancora in giro da qualche parte e non a terra, nella propria stanza simile a una cella, Pokma aveva ricevuto una visita da un calabrone meccanico. Non le era mai successo prima, ma sapeva che era solo questione di tempo. Perché la verità viene sempre fuori, soprattutto quando sei bloccata tra quattro mura, in una scatola enorme con un coperchio nero di vetro e carta moschicida che piove dall’alto. Un’enorme teca per insetti, di fattura piuttosto rudimentale a dirla tutta: ecco che cos’era Lumecha per chi la detestava. Ma per Pokma, Lumecha era la possibilità di continuare a vivere, mesta mesta, una vita appena dignitosa perché certa: comportati bene e niente di male ti sarà fatto. Era un compromesso minimo se non avevi voglia di cacciarti in qualche brutto guaio.

Dunque, il calabrone era arrivato sulla soglia.

«Bzzz».

«Prima legge delle mura…», stava iniziando a ripetere lei, ma gli occhi del calabrone da neri erano diventati grigi, pieni di righe che ondeggiavano verso l’alto e poi verso il basso. Facevano venire il mal di mare, ma per fortuna l’effetto durò pochi secondi e quel leggero malessere distrasse la donna dalla preoccupazione crescente che avvertiva dentro di sé: qualcosa di spiacevole era accaduto o stava per succedere.

Quando lo spettacolo iniziò, il motivo della visita fu chiaro. Due fasci di luce provenienti dall’animale meccanico proiettarono su Pokma e sul muro alle sue spalle qualcosa. Prima di vedere di che cosa si trattasse, comprese di doversi fare da parte e iniziò a osservare la parete sporca di rosso: vide Esmyr insieme a quel giovane, Valxis. Osservò il ragazzo alzarsi in volo e poi atterrare vicino a lei; lo scambio di effusioni non era consono alla sua tenera età, soprattutto con un altro uomo-libellula. La cosa peggiore che notò fu la pericolosa curiosità che li spingeva a interrogare i segreti di un pozzo, un inutile pozzo che in realtà nascondeva qualcosa di tremendo che doveva rimanere segreto a ogni costo.

La donna strinse i pugni e le unghie ricurve, troppo lunghe, incisero solchi sui palmi delle mani.

«Stupida! Stupida bambina irriverente!»

«Bzzz».

L’immagine sparì, la luce si spense. Si voltò verso il calabrone e i suoi occhi tornarono scuri, morti.

In quel preciso istante, le domande iniziarono ad accavallarsi una sull’altra, a formare una montagna di dubbi che lentamente franava da ogni lato in ogni direzione. Impossibili da contenere, difficili da riconoscere e da padroneggiare.

«Bzzz».

Inutile cercare risposte nel calabrone: Pokma non le avrebbe trovate. Erano macchine costrette al silenzio, ma comunque capaci di tradire chiunque si fosse confidato con loro. Era questo il prezzo da pagare per continuare a esistere. E i cittadini di Lumecha altro non erano che animali chiusi dentro a una gabbia: potevano ancora muoversi, mangiare quel che veniva loro offerto, essere forse spettacolo e sollazzo di qualche spettatore. Ma non potevano più vivere.

«Bzzz», continuò e si voltò per andarsene.

Fu allora che un dubbio si eresse più in alto sulla montagna e rovinò fino a valle, nel cuore della donna. Le ali, le ali di Esmyr. Erano state catturate da quegli occhi? Il loro rumore registrato? Il segreto della sua bambina, della sua bambina deforme, e quindi quello della madre, della madre di un essere imperfetto, di un mostro, era stato scoperto?

Il calabrone rimase fermo a pochi metri dalle vesti scure di Pokma, quasi avesse udito i suoi pensieri. Poi uscì, silenzioso, proprio come era entrato.

***

«Esmyr, sei tornata».

L’aveva aspettata in un angolo buio, mimetizzata dalle tenebre che sempre regnavano su Lumecha. Fece un passo in avanti: le vesti adesso erano appena più chiare delle pareti immerse nell’oscurità.

«Ciao, mamma».

«È molto tardi».

«Lo so, scusa…»

«Non dovresti rimanere fuori così tanto, soprattutto di notte. E da sola…»

Esmyr si morse la lingua mentre stava per tradirsi, ammettendo che c’era qualcuno con lei. Qualcuno di speciale. Qualcuno come lei.

«Scusa, mamma, non lo farò più».

Pokma si avvicinò e tirò su con il naso: piccoli colpi ad alta frequenza. Sembrava un cane che avesse fiutato una pista. La bambina rabbrividì, mentre la madre la abbracciava così forte da renderle difficile respirare. Sentì dolore all’attaccatura delle ali, sulla schiena. Esmyr pensò di essere sul punto di soffocare.

«Potevano prenderti, scoprirti».

Era un’immagine nuova quella che le si era disegnata davanti: un genitore affettuoso, forse preoccupato della salvezza della propria figlia.

«Non farlo. Non farlo più», proseguì Pokma.

«Va bene, mamma».

«Me lo prometti?»

«Sì».

«Dillo».

«Te lo prometto».

Pokma respirò il profumo della figlia: riusciva a distinguere una leggera nota aspra, quella tipica dell’adolescenza e dell’immaturità dei primi amori.

«E tieniti lontana dai pozzi», ordinò la madre.

Le braccia e il busto di Esmyr diventarono di legno. Anche le sue gambe e i suoi piedi sembravano esserlo, saldati nelle profondità della terra, incastonati nella polvere compatta come radici di alberi stanchi.

«C’è solo l’acqua. E l’acqua è una condanna per chi è nato per volare».

Non comprese fino in fondo le parole della madre, ma capì che in qualche modo sapeva dove era stata. Era un avvertimento, quello, diverso da come se lo sarebbe aspettato. Credeva che, se l’avesse scoperta, l’avrebbe minacciata, trascinata per le mani fino a farla coprire di rosso e di marrone. Si sarebbe aspettata tutto, ma non questa dolcezza.

«Ma io non posso volare», farfugliò in fretta, temendo per un attimo un tranello.

«Non devi farlo. Ma forse, un tempo, avresti potuto. Dimentica le ali, dimentica i pozzi. Non c’è niente fuori Lumecha. E anche se ci fosse…»

Il cuore di Esmyr perse un battito.

«… qui hai tutto quello di cui hai bisogno».

***

Rassicurarla, spaventarla: era un gioco di equilibri a cui Pokma non aveva mai partecipato prima. Qualsiasi scelta avesse fatto, sarebbe stata comunque una condanna: questo avrebbe dovuto confidare alla figlia, se avesse scelto di essere davvero sincera con lei. Vivere nella polvere di Lumecha o diventare polvere appena fuori da Lumecha. Era questo il destino che qualcuno aveva già costruito e che loro non potevano far altro che accettare di percorrere.

Il suono della seconda Luna sembrava venire da un luogo più lontano. Come se fosse salito dalle viscere della terra, come avesse risuonato nelle gallerie che esistevano sotto Lumecha e che avrebbero potuto guidarli fuori dalle mura.

«Adesso sono un po’ stanca, mamma», disse Esmyr liberandosi dall’abbraccio.

«C’è un’altra cosa di cui vorrei parlarti».

«Domani? Adesso mi sento davvero…»

«Preferisco non rischiare. Non rimanderò ancora, mi dispiace».

La ragazza sospirò e insieme si accomodarono sulla polvere. Pokma pensò che sarebbe stato bello farla salire sulle sue gambe come quando era piccola. Esmyr, invece, conservava sulla pelle il bacio di Valxis e i rivoli di lacrime che si erano rincorsi sul suo viso fino a precipitare giù dalla mandibola.

«Hai visto niente, nel cielo, oltre le Mura?», le chiese la madre.

Prima di parlare, la bambina aggrottò le sopracciglia.

«No, perché?»

E prima che la madre potesse rispondere, temendo un tranello, si affrettò a dire: «E poi non c’è niente là fuori».

Pokma si protese in avanti e osservò gli occhi della figlia: colse sfumature che non aveva mai notato, una strana tendenza al giallo in occhi apparentemente grigi. Una punta di verde, un marrone malcelato. Nessun azzurro, niente che potesse ricordare quelli del padre.

«La prima legge è giusta», le bisbigliò a voce così bassa che Esmyr pensò stesse parlando da sola. «E anche se non lo fosse, non metterla in dubbio, mai. Se c’è qualcosa fuori, non è niente di buono. Prometti di non andarci mai».

«Ma, mamma, non si può uscire da…»

«Promettilo!»

«Lo prometto».

Pokma avvertiva un dolore forte al petto: come una pugnalata al cuore o una brutta influenza. Come il bisogno di vomitare e l’impossibilità di tirare fuori qualcosa di diverso da succhi gastrici acidi e bollenti.

***

«L’hai vista anche tu?», le chiese Valxis fissando un punto in alto oltre le spalle di Esmyr.

«Che cosa?»

«La luce! La luce oltre le mura di Lumecha».

«Non capisco…»

«Con me non devi fingere, lo sai».

«Visto che insisti… Sì, l’ho notata qualche giorno fa. Ho pensato che fosse un abbaglio…»

Il ragazzo annuì e sussurrò: «Questa è la prova che aspettavamo…»

Si abbracciarono per pochi istanti, poi lui la prese per mano e le gridò: «Seguimi!»

Corsero per i vicoli, attraversarono qualche piazza e terminarono la loro corsa in un cortile circondato da macerie. Erano nella parte più antica della città, nella zona che si diceva essere stata più esposta alla catastrofe che aveva portato Lumecha a essere l’ultimo baluardo del mondo.

«Eccolo».

Valxis sorrise, mentre si avvicinavano al bordo di un pozzo. C’era una botola, ma era stata spostata appena da una parte. Doveva essere molto pesante e chi lo aveva fatto aveva faticato molto, pensò la ragazza.

«Coraggio! Devi solo gridare il tuo nome», la esortò sporgendosi.

Esmyr aprì la bocca, prendendo tempo per la rincorsa.

«Non avrai mica paura della tua voce?»

La ragazza rimase così, mentre Valxis si avvicinava alla stretta voragine e urlava «Esmyr!».

Lungo le pareti del pozzo scesero, si arrampicarono e per un po’ restarono bloccati suoni ripetuti della voce che tanto amava.

«myr… myr… myr».

Sul viso della ragazza si disegnò una smorfia che mise ben in mostra i suoi denti: erano ancora chiari. La povertà non li aveva rovinati. Valxis pensò che avesse il sorriso più bello mai visto a Lumecha. Lumecha o tutto il mondo non faceva poi molta differenza quando tutto ciò che conosci e che ti è permesso di conoscere è racchiuso dalle stesse mura.

«Niente acqua qui. Capisci cosa intendo?»

Annuirono entrambi, in silenzio.

«Voglio scoprire di più su quella luce», le annunciò.

Poi, insieme, si tuffarono giù.

***

Pokma l’aveva seguita, convinta che stesse per cacciarsi in un brutto guaio. Forse aveva sbagliato a non parlarle subito in modo chiaro. A non dirle che cosa si raccontava del bagliore che prima o poi tutti vedevano.

Una grossa lampada che avrebbe sterminato tutti gli uomini-libellula: questa era la natura, si raccontava, della luce. L’aveva notata anche lei quando aveva l’età di Esmyr. Sua madre l’aveva fermata in tempo, prima che facesse sciocchezze. Le aveva rivelato quella verità impossibile da dimostrare, ma che lei aveva scelto di abbracciare con fede cieca. Dubitarne sarebbe stata una condanna a morte.

Succedeva ai ragazzi e alle ragazze al raggiungimento di una certa età. E loro, ignari della realtà, credevano che fosse una prova della crudeltà delle mura, della grande menzogna che era Lumecha.

«NO!», gridò Pokma alla figlia, mentre i cunicoli sempre più stretti e bui rendevano difficile il percorso.

Valxis era già fuori per metà e porgeva una mano alla ragazza. Indugiò un istante per gridarle: «Ci siamo quasi, Esmyr! Qui c’è la luce! È tutto pieno di luce!»

Ebbe un secondo di titubanza. Quel secondo di troppo.

«La vedo!», disse prima di tuffarsi all’esterno verso l’ignoto.

Esmyr provò ad afferrarlo, ma non ci riuscì. Fu strattonata via dalle vesti sempre più scure di Pokma e da quelle mani che non avrebbero mai potuto amarla come lui aveva fatto.

«Tornerà. Tornerà a prendermi», ringhiò alla madre e attese qualche istante, finché la luce si spense e le gallerie furono di nuovo abbracciate dal buio.

«Non lo farà. Nessuno è più tornato».

«Ti odio!»

«Quella è solo una trappola, una trappola per gli ultimi poveri ragazzi-libellula. Immaginavano che ce ne fossero ancora e così i calabroni hanno pensato di…»

«No, non è vero! Lui è vivo! Tornerà, tornerà per me!»

«È per quello che porti in grembo? Quel mostro? Pensavi che non l’avessi capito…»

Esmyr si guardò la pancia che iniziava appena a pronunciarsi. La toccò, intrecciò le mani sopra il tessuto sporco di marrone.

«È stata una formica dalla testa rossa a mostrargli la verità. È libero, adesso», gridò contro la madre.

Le ali della ragazza presero a muoversi, ma entrambe sapevano che qualsiasi fosse la natura della luce, non l’avrebbero mai conosciuta.

3 commenti su “Vivere nella polvere o diventare polvere”

  1. Sono contento che abbia deciso di proseguire le gesta della città delle libellule e i modi sono molto azzeccati. Non sono d’accordo con seme nero: l’ho trovato squilibrato. Non è un rimprovero, dopotutto è la città delle libellule, aveva già una sua direzione. Ma il narratore è chiaramente di parte, la descrizione del contesto viene portata in alto e scura, negativa, pessimista, mentre il rapporto tra i due è un angolo rosa, luminoso di speranza, verso cui tutto rotola assecondando il dislivello narrativo.

    Ma il bello è che questo soggetto ha preso e sta prendendo piano piano una forma interessante. La mia curiosità verso questa storia batte l’esigenza della regola del gioco. 😉

    comunque, per onore di cronaca, è squilibrato: andiamo tutti odieranno i calabroni neri dopo la lettura e questo perché il mistero naturale di questo soggetto nasconde le ragioni. Se non ci sono ragioni vere, fino a quando non ci sono motivazioni vere, la narrazione tenderà sempre a sbilanciarsi in favore dei protagonisti.

    1. Sai che temevo fosse sbilanciato in senso opposto? Nel senso, qui parlo molto di Pokma e del suo punto di vista (che, vero, non rivela altre ragioni oggettive)! Ahi, ho toppato con l’equilibrio in toto! Sapevo che fosse difficile, anche perché due dei personaggi li avevo già presentati!
      Però sono contenta che la curiosità venga alimentata e sicuramente continuerò a lavorare su Lumecha. In fondo ancora non sappiamo molto di questa strana città e dei suoi abitanti. Mi metto in ascolto dei loro sussurri e poi torno, promesso 😉

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