Vai al contenuto

Un fiore tra la gramigna

Un racconto di Giattas

Traccia 14: Bellamy Carezzadiseta rubò un euro dal portafoglio gravido di banconote dell’uomo più ricco del mondo. Poi si riavvicinò al capannello di enormi guardie del corpo che lo proteggeva. Il muro di muscolari donne e letali armadi occhialuti si serrò, avvolgendo nell’ombra il bambino. E allora Bellamy rubò una pallottola a ognuno. Le mise in tasca e quelle cominciarono a bisbigliare. Bellamy Carezzadiseta le tranquillizzò con due colpetti di palmo. Un giorno suo padre gli disse che non sarebbe mai riuscito a cambiare il mondo. I ricchi cambiano il mondo. I poveri vivono di piccole cose concesse dai ricchi e non si cambia il mondo con le piccole cose. Allora Bellamy Carezzadiseta iniziò a rubare solo piccole cose.

La sveglia suonò. Giulia si coprì la testa col cuscino. La sveglia suonava ancora. Rotolò su un fianco e allungò il braccio: l’altra metà del letto matrimoniale era vuota.

«Karola?» si mise seduta tra le lenzuola, «Karola, sei in bagno?» pigiò il bottone sulla sveglia. «Devi andare al lavoro!» Aprì il primo cassetto: legò una benda all’occhio destro e trascinò una ciocca per nasconderla.

La porta del bagno era aperta, in fondo al corridoio. Giulia si fermò sull’uscio: il rotolo di carta igienica era ancora orientato nel verso giusto, la sorella non l’aveva manomesso. La tendina della finestra in cucina era chiusa, le stoviglie nel lavabo impilate nello stesso ordine della sera prima.

Se era già uscita, aveva dimenticato di staccare la sveglia. Ma Karola non dimenticava mai niente, soprattutto di prepararle la colazione. Giulia sbirciò nel microonde e poi nel forno. Pure il frigo era vuoto.

Ritornò al corridoio e aprì il cassettone, che stava proprio sotto una fotografia del signor Bellamy Peters appesa al muro. Giulia si mise in punta di piedi e spolverò col dito le ragnatele: Karola si era dimenticata persino di pulire.

Congiunse le mani: «Grazie, signor Bellamy, per averci concesso questa casa e questa vita.»

Rovistò tra quaderni e ritagli di giornale. Sull’inserto calcistico dell’anno passato, la sorella aveva scritto tutti i recapiti di telefono d’emergenza. Prese il cellulare e compose il primo.

Squillò a lungo. Allontanò il telefono dall’orecchio. Chiamata terminata.

Digitò il secondo. «Sì! S-salve, sono Giulia Keller, la chiamo per—»

«Chi? Ha sbagliato numero!»

«Pensavo di— pronto?»

Compose il terzo. Risposero al primo squillo. «Buongiorno, ufficio risorse umane della Peters’ Financial Association: come posso esserle utile?»

«Ah, sì, sono Giulia Keller, la sorella di Karola Keller. È lì?»

«Keller?» un fruscio, un lungo sospiro. «Signorina Keller, non dovrebbe essere a scuola a quest’ora?»

«Sono chiuse, c’è la neve.»

«Oh, già.»

Si spinse in punta di piedi e raddrizzò la foto del signor Bellamy. «Mia sorella è lì?»

«Sua sorella, signorina Keller, ha timbrato l’uscita tre giorni fa. È l’ultimo dato che ho. Sicura non sia a casa?»

«Non credo, non ha lasciato la colazione p-pronta.»

«Sono costernata. Un buon proseguimento di—»

«Aspetti!» Giulia saltellò sul posto e si morse il pugno.

«Signorina, ho altre chiamate in coda.»

Si appollaiò contro il mobiletto. «D-dov’è Karola? Perché mi ha lasciata sola?»

«Signorina…»

«P-posso passare questo pomeriggio in sede a chiedere se qualche collega sa dov’è?»

«Lei non è una nostra dipendente, signorina Keller, sto già essendo molto paziente a rispondere a tutte queste domande. So che è stata sua sorella a darle il numero, ma non dovrebbe più chiamare.»

«Se sono una dipendente posso venire alla t-torre?»

«Certo.»

«Arrivederci.»

Non c’erano forbici pulite. Karola le usava solo per tagliare la pizza o pulire il pollo. Giulia ne sciacquò un paio sotto l’acqua e tagliuzzò via un angolo del giornale: “Donna pulizie cercasi”, poi l’indirizzo della torre del signor Bellamy. Curioso che cercassero qualcuno visto che, da quello che raccontava Karola, nella torre c’era fin troppo personale.

Si accucciò sul divano col plaid sulla testa e sulle spalle. Sul tavolino di fronte aveva messo delle merendine per il pranzo, da mangiare in ordine: quella al cioccolato al latte per ultima.

Gettò le cartacce nella pattumiera e fissò il portone di casa. Un conto era andare alla fermata del bus e poi a scuola come ogni giorno, un altro uscire per andare chissà dove. La mano tremò sulla maniglia. Magari Karola sarebbe rientrata per cena. Magari, anzi di sicuro, sarebbe tornata con la spesa e tanta voglia di fare cotolette ai funghi. Magari no.

La torre del signor Bellamy era da qualche parte a nord, sulla linea della metro verso l’aeroporto. O no? Ci voleva il biglietto orario lungo. «Si può fare alle macchinette?» mormorò, rigirandosi il portafoglio tra le mani.

Tirò la cerniera del cappotto sino alla gola, incastrandoci la sciarpa; calò il cappello di lana di traverso sino a nascondere l’occhio destro.

La neve sciolta del vialetto si infilava nei buchi delle scarpe e rosicchiava i calzettoni sino a trovare la pelle del piede, soprattutto il dito più piccolo e indifeso.

I comignoli delle case tossivano fumo grigio che si perdeva nel cielo di cemento: le nuvole sembravano dipinte, lo scarabocchio di un bambino su un quaderno a quadri. Oltre la strada lampeggiava la U della metro.

Il treno l’aveva lasciata accanto a un parco. Forse c’era l’erba, almeno d’estate, ma oltre la foschia, sulla schiuma fangosa di chi giocava con gli slittini sulla neve, si dondolavano scoordinati solo pochi alberi decrepiti.

La torre del signor Bellamy era proprio lì, dietro un boschetto di tronchi muschiosi. Giulia aprì di poco la cerniera dello zaino: c’era tutto. Bastava varcare la porta, la stessa che Karola varcava ogni mattina all’alba.

Per qualche ragione, nello slargo di fronte alla torre la neve si era già sciolta. O magari non era mai caduta per non fare un dispetto al signor Bellamy.

La porta automatica non cigolava come quella della banca: si aprì con uno sbuffo d’aria e una lucina al led si accese. Giulia avanzò, pulì le scarpe su un angolo del tappeto: meglio non macchiare il nome Bellamy ricamato in oro, lo avrebbe offeso.

«Signorina,» un uomo le si affiancò, «ha un appuntamento?»

«N-no. Però mi hanno detto una cosa, al telefono.»

Lui lanciò un’occhiata al banco della reception. «Mi dica, prego, cosa le hanno detto?»

«Che se sono un impiegata p-posso entrare.»

«E lei è impiegata qui, per caso?»

Giulia portò lo zaino al petto e aprì la cerniera. «Ho dei fogli che dicono che posso lavorare!»

«Non c’è bisogno di agitarsi, signorina.»

«Lo giuro, posso lavorare. Ho f-fatto gli anni la settimana scorsa, è la verità, io non dico mai bugie.»

L’uomo lisciò la cravatta. Si sporse in avanti e le sfilò il cappello di lana. Nel collo di Giulia scattò una molla che le fece chinare il capo. Quel meccanismo era comodo, permetteva di evitare l’imbarazzo di guardare le facce di chi aveva due occhi belli e funzionanti.

«Signorina, mi ha sentito?»

«No, mi scusi.»

Quello le pinzò il mento. «Alzi la testa.»

«Il medico dice che vedo bene anche con uno. È la verità.»

«È assunta, signorina Keller.»

Giulia stropicciò l’angolo della perizia medica che teneva in mano: era lì che il signore aveva letto il suo nome? «Quindi sono assunta?»

«Certo.»

«E il colloquio?»

«È appena finito.»

Era meglio non chiedere altro. Il signor Bellamy sapeva come fare le cose per bene, lei di sicuro no. Magari era stato proprio lui a istruire il signore alla porta.

«P-posso permettermi di chiedere una c-cosa?»

Lui la guardò più o meno all’altezza del naso. «Prego.»

«Per caso lei conosce mia sorella Karola?»

«Solo di vista.» Si mise da parte e indicò la via verso la reception: «Vada a ritirare il suo tesserino e i nuovi documenti.»

Dietro il bancone brillava il sorriso di una donna dai capelli cotonati. C’era pure un mazzo di fiori; da laggiù sembravano rose. Giulia spostò il piede verso il tappeto rosso. Meglio di no, l’avrebbe macchiato.

L’ascensore di cristallo la abbandonò senza salutare a un piano con un lungo corridoio vuoto. Da una porticina uscì un individuo. Giulia lo fissò come fissava le giraffe allo zoo.

Lui chinò il capo verso di lei e ricambiò con un sorriso. Alzò la mano, sfiorando quasi il soffitto. «Ciao.»

«C-ciao.» Giulia appiattì la frangia sulla benda. L’uomo aveva un pugno di capelli solo al centro della testa, che ricadevano ai lati del capo come i peletti alla base delle cipolle.

«Nuova?»

«Sì.» Giulia deglutì più volte, tossì.

«Vuoi un po’ d’acqua?»

«Sei il mio superiore?»

«Dipende.» Si massaggiò la mascella. «Sono Anton. Una delle guardie private del signor Bellamy.»

«Cavolo!»

«Eh, già.»

Giulia infilò una mano nella tasca piccola dello zaino. «Guardi, signor Anton, sto cercando questa p-persona.» Gli offrì una foto di sua sorella. «Ho chiesto un po’ a tutti quelli che ho incontrato, ma nessuno sa niente. Mi hanno detto che certe cose le sa, e le deve sapere, solo il signor Bellamy. Perché dicono così?»

«Sapere troppo fa male, sai? La verità è scomoda.»

Giulia riprese la foto e la mise in tasca. «Il signor Bellamy dice di seguire il cuore e dire sempre la cosa giusta. Lo dice in TV.»

«Dire la cosa giusta e dire la verità sono cose diverse.» Anton girò la testa. Indicò la porticina: «Sediamoci. Le persone si stancano a parlare con me se non mi siedo, dicono che faccio venire loro il torcicollo.»

Giulia lo seguì in uno stanzino. Anton si afflosciò su una poltrona vicino a un televisore.

«Cosa dicevi, ragazza nuova?»

«Giulia.»

«Giulia, sì.»

«Sto cercando mia sorella. Non è tornata a casa.»

Anton allungò il braccio verso la finestra e la chiuse. «Posso farti parlare col signor Bellamy.»

«Oddio…» Giulia tappò il buco nel petto da cui il cuore voleva balzare giù. «Ma io sono solo una normale cittadina.»

«Il signor Bellamy è magnanimo.»

«E cosa d-devo fare? È il mio primo giorno, qui.»

Anton prese il cellulare dalla tasca. Lo portò alla bocca e mormorò tra sé e sé. Schiarì la voce. «Io sono una brava persona, Giulia.»

«Lo vedo, signor Anton.»

Picchettò col cellulare sulla propria fronte. «Però, come tutte le brave persone, nascondo una verità scomoda: sono pure un po’ cattivo.»

Giulia sbirciò la porta. Strinse lo zaino al petto. «Io voglio solo t-trovare mia sorella.»

«Non ti farò del male.»

«Signor Anton, per favore…»

Lui portò una mano dietro la schiena. Era una pistola. Doveva essere una pistola, o uno di quegli affari che sparano fili elettrici. Qualsiasi cosa fosse, Giulia lasciò cadere lo zaino e portò le mani dietro la testa.

«Puoi farmi un favore, Giulia?»

Lei annuì. Aspettare Karola a casa sarebbe stato meglio.

«Posso fotografare le tue mutandine?»

«Le mie—»

«Lo so che è crudele. Ma a me piacciono.» Anton lasciò la pistola sul mobiletto della TV. «Giuro sul signor Bellamy che non ti inquadrerò in faccia.»

Lei sfilò il giubbotto. Non c’era niente di male a mostrare l’intimo. A scuola capitava che le sue compagne si spogliassero davanti ai maschi: non sembravano tristi.

«Sei molto graziosa, Giulia.» Puntò il cellulare verso di lei.

Giulia slacciò i jeans e singhiozzò. Serrò le palpebre e lasciò cadere i pantaloni ai propri piedi. La poltrona rumoreggiò, Anton si stava muovendo. Il suo respiro cresceva. Il click della fotocamera del cellulare.

«Non ho preso la faccia, giuro.»

«Ora posso vestirmi?» guidò le mani all’inguine, coprì il fiocchetto rosa delle mutandine. «Signor Anton?»

«Posso toccare?»

Giulia negò col capo, come si faceva coi bimbi troppo curiosi. La mano sul fuoco non va messa, o ci si brucia.

«Verso l’una vai all’ultimo piano con questa tessera e di’ loro che devi portare da mangiare al signor Bellamy.»

Lei aprì gli occhi. Sul palmo della mano di Anton c’era una minuscola tessera. Giulia la prese e riuscì per miracolo a stringerla nel pugno.

«Arrivederci, Giulia,» le aprì la porta e si inchinò, «al signor Bellamy chiedi solo di tua sorella. Nient’altro.»

Giulia avanzò lungo un tappeto rosso che portava a un’arcata, reggendo un vassoio coperto.

«È permesso?»

«Prego!»

Oltre l’arcata, l’aria cambiò: odorava tutto di casa, specialmente dei giorni in cui Karola dimenticava di lavare il bagno e i piatti. Le pareti erano scolorite, coperte da mensole e vetrinette di legno, decine e decine di scaffali tutti identici e pieni di oggetti.

Il signor Bellamy doveva essere quell’omino seduto sulla poltrona, coi capelli grigi e la schiena curva. In TV era sempre elegante.

«Signor Bellamy, le ho p-portato il pranzo.»

Lui annuì e mise da parte un giornale ingiallito. «Vuoi leggerlo? È di oggi, fresco fresco.»

«Di oggi?» Giulia aggrottò le sopracciglia, la data nell’angolo in alto diceva 2001.

«Qui sostengono che io abbia rubato. Ma non è vero.» Il signor Bellamy voltò pagina. «Forse è una metafora, sai? Quelle cose che i giornali dicono per intenderne altre.»

«Una bugia?»

Il vecchio girò un’altra pagina. «Una bugia, sì, intendevo quella. Nessuno conosce la verità.»

Giulia seguì la sua occhiata persa. In una vetrina dorata in fondo alla stanza c’erano una piccola moneta e una serie di pallottole di pistola. «Signor Bellamy, non esce più dalla torre? La gente per strada vuole vederla.»

«Quale torre?»

Lei adagiò il vassoio sul tavolino di fronte al vecchio. I pantaloni puzzavano come l’armadio del nonno. Due piccoli buchini sul maglione, sotto di esso una camicia di flanella macchiata. «Signor Bellamy, lei sa per caso dov’è mia sorella, Karola Keller?»

«Oh, Karola. Karola, sì.»

«Dov’è?»

Lui tossì. «Non saprei.» Tossì di nuovo, e prese la forchetta dal vassoio. «Se devo essere onesto, io qualcosa l’ho rubata, in vita mia. Papà mi diceva di farlo per prendersi qualche soddisfazione sui ricchi che governano il mondo.»

«Signor Bellamy, allora quello che si dice su di lei è vero.»

«Cosa si dice di me?»

Giulia si strinse nelle spalle. Avrebbe dovuto lasciare che Karola mettesse via quella foto nel corridoio. «Che lei a furia di rubacchiare ai ricchi lo è diventato, e oggi controlla il parlamento e la Germania.»

«Io? No!» lanciò la forchetta contro il muro, «io sono un uomo onesto! Io coi ricchi non ci voglio avere niente a che fare. Che ho mai rubato, io? Quattro spiccioli per il panino!»

«Capisco.» Giulia trattenne il respiro: il sapore della menzogna le faceva sempre pungere il naso. Anton aveva torto. «Lei non è una persona per bene, signor Bellamy. Lei è un imbroglione.»

Lui si passò una mano tra i capelli. Polvere e forfora. «Adesso comincio a ricordare di tua sorella.» Strinse il labbro inferiore tra due dita. «L’ho venduta a un qualche parlamentare per far passare una legge.»

«Ha de—»

«Sì, ho detto questo e quest’altro.» Lasciò il divano e andò alla vetrinetta d’oro. «Alla mia età è un po’ complicato tener conto di cosa è vero e cosa no. Ma la verità è sempre lì. Ci posso metter su quanta terra e carcasse putrescenti voglio. È come la gramigna: la verità cresce pure sul cemento.»

«Mi dica dov’è veramente mia sorella, signor Bellamy. Voglio tornare a casa.»

«Ora ti confesso una cosa: tua sorella non si è accontentata di mostrare le mutandine, ha preferito essere il passatempo pomeridiano di metà dei miei dipendenti.»

Giulia si aggrappò alla spalliera del divano. «Non è vero.»

«Non è vero, dici? Non è vero perché ti fa comodo che non lo sia. Meglio credere che sia falso, fa meno male. Vale per tutti noi.»

Lei indietreggiò, batté le caviglie contro un mobiletto, «dirò a tutti chi è lei davvero, signor Bellamy.»

«A chi, che non sai neppure distinguere un ufficio postale da un supermercato?» Lui indicò la porta. «Grazie per il pranzo, ora torna nei tuoi alloggi.»

Karola sarebbe tornata, perché le voleva bene e non l’avrebbe mai lasciata sola. Doveva tornare. E se il signor Bellamy avesse ragione? Non sapeva neppure dov’era, il supermercato. «Io la denuncerò, signor Bellamy.»

«Sono sicuro che lo farai.» Il signor Bellamy aprì lo sportellino della vetrinetta d’oro e strinse tra le dita una moneta. Rise. «Vai e denunciami, racconta loro chi è davvero il signor Bellamy Carezzadiseta!» Lanciò la moneta e l’afferrò al volo.

Giulia lo lasciò lì, immobile con la sua moneta in mano. Uscì dalla porta e corse verso l’ascensore. Lo avrebbe denunciato eccome: ormai sapeva che il biglietto della metro lo poteva anche fare col cellulare. Sapeva abbastanza.

Le porte si aprirono prima che lei chiamasse l’ascensore. «Anton?»

«Mi dispiace, Giulia.»

«Di cosa?»

Portò la mano dietro la schiena. «Ti giuro che non sono un uomo cattivo.» Anton le baciò la fronte. «È la verità.»

Giulia trattenne il fiato: non sapeva davvero niente.

Click.

13 commenti su “Un fiore tra la gramigna”

  1. Povera ragazza. Secondo me, invece, Bellamy non è proprio così impalpabile, viene nominato lungo tutto il racconto fino alla sua presentazione e credo che sia stato architettato come uno che fa il finto stupido: il giornale vecchio, cosa si dice di me, quale torre ecc.
    Ci sono un paio di cose da sistemare ma sciocchezze: aprì gli occhi, ma in realtà ne ha uno solo la ragazza; quando Giulia entra nell’ufficio di Bellamy dici che l’odore le ricordava quando Karola non puliva, ma è una contraddizione con l’inizio del racconto dove invece si capisce che Karola è super efficiente, pulita, ordinata ecc, infatti Giulia si stupisce che la sorella non abbia spolverato.
    Da sistemare, vero, però non è da buttare

    1. Mannaggia, le cose “degli occhi” mi pareva di averle controllate tutte. 😛
      Sono spietato come miei lavori: purtroppo questo racconto non supera i miei standard. Meritava una pianificazione più ragionata e un filo conduttore narrativo diverso.
      In ogni caso ti ringrazio per gli appunti.

  2. Sono d’accordo con Dulcinea. La caratterizzazione è un poco vaga. il senso è ben accennato, ma scorre tutto troppo leggero. Non trovo un peso ai gesti e la sensazione di incompleto non aiuta. Eppure è buon materiale. Era una delle mie tracce preferite, e comunque il secchio è stato riempito di una buona materia da lavorare.

    1. Come ho risposto ad altri, sono rimasto deluso dal mio lavoro e tendo ad essere molto critico. Non è un buon prodotto, ma ho voluto sottoporlo perché non amo neanche sottrarmi agli impegni presi. La traccia non era male, ma mi sono fatto ingannare da alcuni elementi che mi interessavano senza valutare bene cosa io, come persona e autore, potessi trarne. Mi ha— mi sono— lasciato poco spazio di manovra e costretto su un sentiero (in fase di pianificazione) che si è concluso con me rassegnato che ho “accettato” di scriverlo lo stesso.
      Sul discorso caratterizzazione. Più che vaga direi che non è semplice da afferrare, è disseminata nei dialoghi e nelle scene, nei movimenti dei personaggi. Non è un testo “flashy” questo no.

  3. Vista con gli occhi della bambina è una narrazione che lascia sensazioni forti, di quelle che non vorresti provare ma che restano addosso, quindi in quel senso la storia funziona (con un ipotetico cambio di protagonista). Dei personaggi che le ruotano attorno, Bellamy in particolare, non colgo appieno l’essenza e mi rimane il bisogno di una maggiore caratterizzazione.

  4. Lo squallore si attacca alla pelle mentre si legge questa storia. L’impatto emotivo c’è, sia per lo squallore che per l’ansiosa ricerca portata avanti dalla protagonista. Quello che mi manca è qualcosa che permetta di collegare i vari punti tra loro.
    In poche parole mi è arrivato più a livello emotivo che a livello di storia.

    1. L’idea base era “la ragazza vuole ritrovare sua sorella” col sottotesto di “non esce mai di casa, è il momento che si dia da fare”. Mi pare che almeno questo sia chiaro; il resto è un po’ meno organizzato per due ragioni legate tra loro: mi sono pentito della traccia che ho scelto e ho faticato un sacco a pianificare una storia decente partendo da essa.
      Per Bellamy ho cercato, pur mettendolo sullo sfondo, di farlo apparire come colui attorno al quale ruota tutto il setting.
      Grazie per averlo letto.

      1. Testo e sottotesto sono chiari, sei riuscito a renderli. Come dici tu, forse è mancata un po’ di pianificazione. L’ho letto comunque volentieri e mi sono sporcata di quello squallore.

  5. Alessandro Pilloni Ser. P

    Lo squallore si percepisce, la storia è cruda, lascia un senso di fastidio. Però Bellamy presentato così non mi ha convinto molto. Il senso di dasagio è tutto sulle spalle e sulle considerazioni della bambina.

Lascia un commento