Elisa era sveglia, ma non voleva alzarsi.
Preferiva stare sotto le pesanti coperte che le soffocavano il respiro, immersa nell’onnipresente odore di muffa. Almeno non sentiva freddo.
Avvertì la vibrazione nell’orecchio, poi le note di Uprising. Una delle canzoni dei Muse che Mamma cantava a lei e Stefano, da bambini.
Il suo impianto neurale, quasi sempre scarico, non suonava da giorni. Cercò di rispondere più volte, assordata dalle scariche elettrostatiche, poi una voce rispose.
«Elisa? Sono il rider, mi trovo al molo del palazzo.»
«Grazie, scendo subito. Aspetta li, non ti muovere.»
Era ora. Si infilò una giacca sbiadita, strappata. A malapena riuscì a indossarla sui tanti strati di maglioni, combattendo un leggero capogiro.
Doveva fare presto, l’ultima volta il rider era stato derubato prima che potesse raggiungerlo.
Il corridoio era buio, deserto, pieno di scritte e puzza di urina. Serrò il pesante lucchetto che teneva chiusa la porta di casa. Un vecchio era sdraiato immobile su un materasso sporco: si chiese se fosse vivo, ma non aveva tempo per controllare.
Corse giù per le scale, interrompendo una coppia di ragazzi coperti di tatuaggi che si baciavano su un pianerottolo. Scese con cautela, cercando di non scivolare, l’odore di umido le stringeva la gola.
Quando arrivò al mare, le sembrò che il livello fosse aumentato ancora. All’esterno dovette fermarsi un attimo per abituarsi alla luce, nonostante l’onnipresente cielo grigio.
Attorno a lei i palazzi di cemento della Fossa svettavano come torri sporche, immerse nell’acqua immobile, marrone. Decine di antenne paraboliche e vecchi condizionatori costellavano ogni finestra. La Mamma le aveva raccontato che una volta la Fossa non esisteva, ma poi la temperatura era aumentata, rendendo la città invivibile: avevano costruito i palazzi e tutti si erano chiusi in casa, restando connessi per non vedere i disastri, le inondazioni, le morti.
Fino a quando l’energia non era stata razionata dalla Global Energy.
Il rider era a bordo di un gommone legato al molo: era vestito di nero, indossava una giacca di pelle finta e un cappuccio gli copriva il volto. Elisa intuì da come si muoveva che era preoccupato: c’erano già tre o quattro teppisti del palazzo che lo puntavano.
«Eccomi. Sono qui. Elisa.»
Senza una parola, le passò un pacco avvolto in carta blu, col logo della GloEn, la pila sorridente. Elisa pagò con gli ultimi crediti, poi sarebbe stata la fame. Non avrebbe più potuto collegarsi neanche nelle ore ammesse, quando la corrente elettrica era disponibile.
Il ragazzo liberò la barca e se ne andò.
Elisa risalì in fretta, guardando male i ragazzi per dissuaderli da qualsiasi cattiva idea potessero avere.
Il modulo energetico di riserva era l’ultimo componente che le mancava, una precauzione necessaria. Non poteva rischiare l’attacco senza avere una fonte di backup. Un mezzo sorriso le apparve sul volto: trovava ironico che i componenti elettronici della GloEn, trafugati di contrabbando, le servissero per sferrare l’attacco alla stessa corporazione che li teneva tutti prigionieri.
Terminò gli ultimi collegamenti mentre rabbrividiva.
La macchina occupava buona parte del vecchio tavolo: era un’accozzaglia disordinata di pezzi di vecchi computer, smartphones obsoleti, batterie e blocchi di memoria. Energia residua minima, capacità di calcolo ridicola, elementi rubati o di contrabbando, appena sufficienti per collegarsi e fare funzionare Vittoria. Formavano una specie di città in miniatura, le ricordava i palazzi semi sommersi della Fossa.
Si infilò sotto alle coperte vestita, come sempre, battendo i denti. Aspettò di scaldarsi un po’, poi collegò il cavo all’impianto del polso. Fissò il soffitto mentre lo schermo neurale si accendeva.
«Per te, Mamma. Giuro che ce la farò!»
Scelse la connessione protetta, in un attimo fu dentro.
Si trovava nella Fossa, nel passato.
I grattacieli erano ancora in costruzione, eretti in fretta e furia. Colate disordinate di cemento e acciaio, montate in pochi giorni per accogliere gli abitanti della zona più depressa e malfamata della città. Salvarli dal mare in innalzamento, dall’Inevitabile.
Il vento caldo spazzava le vie fra i monoliti, operai sciamavano nei cantieri, azionavano betoniere e immense gru.
Ricordava l’odore che c’era in quei giorni di quasi vent’anni prima, quando era appena una bambina: era secco e polveroso. Tutto diverso dalla puzza di umido a cui era condannata oggi.
Lo poteva sentire anche nella realtà virtuale, mescolato all’odore acre della tuta di pelle nera, l’abito che si era scelta per Rachel Mazerace, il suo avatar.
Aveva aspettato troppo, attirando l’attenzione di un gruppo di bot operai: le corsero subito incontro minacciosi, armati di sparachiodi. Scappò nella direzione opposta.
«Vittoria, dove devo andare?»
L’intelligenza artificiale che aveva programmato da sola le mostrò la via: un gatto nero apparve da dietro una colonna e salì una delle scale.
Una raffica di chiodi si piantò nel muro vicino. Corse a perdifiato verso l’alto.
Una volta c’erano i firewall a proteggere i Sistemi, ma erano diventati troppo facili da violare.
Poi la GloEn aveva sviluppato i Labirinti: quando ci si entrava si era costretti ad affrontare le proprie paure. Tutta un’altra storia.
Ci pensava mentre continuava a salire più veloce che poteva, arrancando col fiatone sulle scale che si intersecavano. A ogni pianerottolo, dove doveva scegliere la direzione, aspettava che Vittoria l’aiutasse. Una freccia disegnata col gesso, una x formata da due pezzi di nastro adesivo, una canzone da seguire, di quelle che la Mamma le faceva ascoltare da piccola.
Si fermò a prendere fiato: i muri non c’erano ancora, solo colonne grezze di cemento, cavi arrugginiti e quattro rampe di scale che salivano. Il panorama era occupato da palazzi in costruzione a perdita d’occhio, immersi nella luce arancione del tramonto. All’orizzonte poteva vedere il mare ancora lontano, lattiginoso.
Quando si girò trasalì. C’era suo fratello Stefano, come lo ricordava dalla notte dell’Inevitabile. Aveva 10 anni, indossava un impermeabile giallo e stivali di gomma. Il suo volto era ferito, pieno di tagli. Era sparito nell’acqua nera da cui si era salvata a malapena.
Quando apri la bocca, ne uscì fango liquido. Senti un odore di marcio, di morte, avvolgerla come un sudario sporco.
«Brutta stronza. Mi hai abbandonato, lasciato morire come un estraneo.» Sibilò il ragazzo.
Rachel senti gli occhi bruciare.
«Non sei reale» mormorò «mio fratello è morto il giorno dell’Inevitabile. Non sei lui! Solo un maledetto bot!»
Cercò di rimanere concentrata. Notò che una delle scale era segnata da una grande freccia fluorescente. Rachel parti di corsa, caricando a testa bassa. Il ragazzo le si avvinghiò ad una gamba, rallentando il suo slancio. Si spostò di lato verso il bordo del palazzo in costruzione. Continuò a correre, spingere, mentre lui le mordeva una gamba.
Resistette al dolore, fino a sbattergli la testa contro l’angolo di una colonna. Stefano si staccò un attimo, ricevendo un calcio in pieno volto. Lo spinse oltre il bordo.
«Assassina!» Lo senti urlare mentre cadeva.
Strinse i denti, continuò a muoversi, certa che altri bot sarebbero arrivati ad ostacolarla.
In cima, la scala era chiusa da una porta robusta. Con cautela spinse la maniglia, trovandosi in un corridoio familiare. Non aveva nulla a che fare con il palazzo in costruzione: era ampio, con grandi finestre da cui si vedevano cime di alberi in lontananza.
In fondo al corridoio si trovavano tre porte chiuse. Attese un attimo stringendo i denti, finché una luce si accese sopra a quella di sinistra.
Rachel aprì, sbirciando dentro. Era un’aula di scuola piena di banchi allineati, vuoti, illuminata da vecchi neon che mandavano lampi intermittenti. C’era una donna girata di spalle, stava scrivendo qualcosa alla lavagna, già piena di una scritta fitta, obliqua.
Si avvicinò zoppicando, riuscendo a leggere la scritta.
Rachel Mazerace era una bambina tanto graziosa. Sorrideva alla maestra che sorrideva alla bambina, ma solo per un angolo di labbra, quello destro. Quello sinistro la rimproverava. “Rachel, non è un lavoro quello!”. Ma la bambina scosse la testa. “Finchè ci saranno i ricchi troppo ricchi, non sarà un lavoro, maestra, ma di sicuro è un’esigenza. Io da grande voglio essere la ladra più brava dell’universo!”
Ricordava ancora quella conversazione. Il tono di sfida che aveva avuto mentre rispondeva: ci credeva davvero. Qualcuno diceva che erano le idee che le aveva inculcato la Mamma.
La donna si girò. Assomigliava alla sua maestra Gemma, la sua unica insegnante, che aveva adorato. Ma era diversa. Aveva un volto pallido, occhiaie nere, lunghi canini appuntiti che sporgevano dalle labbra.
«Che assurdità, Mazerace!» La sua voce sembrava il rumore di unghie che sfregavano sulla lavagna. «Non sarai la ladra più brava, sarai la ladra più morta!»
Le balzò addosso a quattro zampe, come avrebbe fatto un cane feroce. Rachel evitò l’attacco di misura, ricevendo al fianco un graffio degli artigli.
Si fronteggiarono muovendosi in cerchio in mezzo ai banchi. Quando il mostro si avvicinò, lo colpì a mani nude.
Venne distratta da un rumore: vide che sulla lavagna erano apparse due parole in stampatello. SALTA QUI!
Il bot ne approfittò, facendole sbattere la testa contro il muro. Rimase un attimo stordita, ma riuscì a reagire con uno sforzo. La spinse via, quel tanto che bastava per prendere la rincorsa.
Sentendosi pazza, saltò dentro alla lavagna, che sembrò deformarsi per accoglierla. Per un attimo pensò che sarebbe soffocata, poi sgusciò dall’altra parte.
Cadde per terra con un tonfo.
Si trovava in cima a una collina. Dietro di lei una finestra nera rimase sospesa nell’aria per pochi secondi, poi sbiadì fino a scomparire.
Si guardò attorno, attenta a non essere esposta a qualche altro attacco.
«No! Non può essere!»
Anche quella scena era familiare: sotto di lei l’enorme centrale nucleare occupava tutta la valle, un’altissima recinzione la proteggeva.
Una folla era assiepata davanti ai cancelli: anche in lontananza, poteva sentire i loro slogan: “Energia per tutti”, “Global Energy assassini”. Un folto gruppo di uomini in divisa militare li teneva sotto tiro, difendendo il perimetro della recinzione.
Nella zona vicino al cancello riconobbe sua madre con un cartello in mano: urlava contro i soldati immobili che si trovavano a pochi metri di distanza. In fondo al gruppo vide sé stessa e Stefano tenersi per mano. Due bambini impauriti, indecisi se rimanere nel precario rifugio della folla o scappare a nascondersi da qualche altra parte.
Sapeva già cosa sarebbe successo: zoppicando corse giù per la strada, dando istruzioni a Vittoria mentre si avvicinava. Non poteva più aspettare, risparmiare le sue forze o la preziosa energia che la teneva connessa. Doveva finirla.
Troppe cose accaddero in pochi istanti. Il carro armato evocato da Vittoria apparve da una strada secondaria. La folla si avvicinò al cancello, cominciando a spingere. Un comando deciso echeggiò dietro alle file dei difensori, cento spari bruciarono l’aria.
«Nooo! Figli di puttana!» Ricordava ancora troppo bene il rumore, lo sguardo sbarrato di sua madre stesa sanguinante al suolo, la loro fuga nel bosco vicino.
Non contava niente ripetersi che era solo il Labirinto che si difendeva dall’intrusione. L’angoscia, il senso di abbandono erano gli stessi.
Corse verso il carro armato, saltando sulla parte posteriore. Lo diresse in una zona periferica, dove non c’erano soldati. Poi aprì il fuoco.
Il cannone colpì la recinzione col primo colpo, formando un varco che venne superato facilmente dal veicolo, a tutta velocità.
Con un rombo possente, il secondo proiettile aprì uno squarcio nel muro della centrale.
Rachel scese, lanciandosi all’interno. Aveva visto le jeep dei soldati avvicinarsi sobbalzando. Doveva fare presto.
Vittoria la guidò fra scale, stanze, uffici vuoti. Infine, si trovò di fronte alla grande doppia porta di metallo.
Il reattore.
La porta era provvista di una serratura a combinazione. Non perse tempo, testando i numeri suggeriti da Vittoria. Perse la cognizione del tempo.
«Elisa, aiutami!» La sua voce.
Si girò, pronta a difendersi.
Di fronte a lei c’era la Mamma: il corpo pieno di fori di pallottole, da cui il sangue usciva a fiotti. Una gamba era piegata a un angolo innaturale, dandole un’andatura lenta e sinistra.
Era proprio come la ricordava il giorno dell’insurrezione alla Centrale, quando li aveva lasciati soli a piangere sul suo cadavere.
«Aiutami, ti prego. Solo tu puoi farlo. Abbandona questo gioco assurdo, salva la tua Mamma. Ho bisogno di un dottore, presto.»
Rachel sapeva che avrebbe dovuto andarsene. Sentiva di non essersi mai trovata in una situazione così pericolosa in nessuno dei Labirinti che aveva affrontato. Esitò un attimo, presa da un turbine di emozioni.
«Lo faccio per te, Mamma. Lo sai. Tutto questo è per i tuoi ideali. Quelli che ci hai insegnato da quando eravamo piccoli. Devo entrare, arrivare al reattore. Per tutti gli abitanti della Fossa: stanno morendo di freddo, di fame. Schiavi della GloEn.»
«Che sciocchezza! Sei brava, nessuno era mai arrivato fin qui prima d’ora. Potrei offrirti un lavoro nella sicurezza: farti disegnare i Labirinti, aiutarmi a tenere fuori gli intrusi. Ti meriti una bella casa in montagna, all’asciutto: riscaldamento, il frigo pieno di cibo. Lontana da quella fogna umida.»
Rachel rabbrividì, pensando al suo cubicolo dove l’unico posto caldo era sotto le coperte, all’onnipresente puzza di muffa. Rimase in silenzio, per la prima volta da quando rubava energia e componenti alla GloEn, era tentata di fermarsi, accettare. Smettere di lottare.
«Un lavoro. Una casa. Magari un marito e tanti bei bambini che ti assomigliano. Che assomigliano a Stefano, il mio piccolo. Lo so che ti manca tanto.»
Intanto si era avvicinata, fino a fermarsi a pochi passi. Il sangue stava formando una pozza rossa ai suoi piedi.
«Fermati» disse, decisa.
«Potresti prenderti cura di loro, non di quei criminali della Fossa, feccia della società.» Fece ancora due passi.
«Ho detto fermati, basta.»
Fece a malapena in tempo a finire la frase. Il bot attaccò: le mani si erano trasformate in lungi artigli di acciaio, cercò di morderla con denti appuntiti.
Rachel scartò di lato, afferrando la testa del bot e piantandola nel meccanismo della combinazione. Schiacciò con tutta la forza che aveva, chiese a Vittoria di amplificare il processo, finché porta e testa non cominciarono a fondersi l’una nell’altra. Il corpo del bot diventò rovente, colando a terra.
Resistette anche se le mani le bruciavano, era l’unica occasione che aveva. Urlò, assorbendo ogni goccia di energia rimasta nella sua povera attrezzatura. Vide le sue mani prendere fuoco, un varco aprirsi nella porta, finché le due ante non si separarono con un rumore sommesso.
Dentro, c’era una camera buia, ad eccezione di una enorme pila sorridente che emetteva una luce blu. Entrò zoppicando, sconvolta dal dolore.
Davanti alla pila, un grande interruttore rosso.
Lo premette, un attimo prima di svenire.
Elisa si svegliò.
Aveva male dappertutto. Spinse le coperte con le mani trasalendo dal dolore: erano piagate, bruciate su tutta la superficie.
Tremando, riuscì a malapena a mettersi a sedere sul letto.
In lontananza, vide una finestra accendersi di una luce gialla.
Un’altra nel palazzo di fronte, poi due, tre, dieci, venti.
Poteva vedere le persone dentro agli appartamenti: erano increduli, accecati da quella luce inaspettata. Si affacciarono alle finestre, alcuni ridevano, altri si abbracciavano.
Elisa cadde in ginocchio, un sospiro di sollievo. Rachel ce l’aveva fatta: aveva dato loro uno scopo, una speranza.
Ora non c’era più bisogno di lei. Bisognava ricostruire, dimenticarsi della finzione virtuale, vivere e ricostruire nella realtà.
«Grazie Rachel. Addio.»
Si trascinò fino alla porta, uscì nel corridoio illuminato, pieno di gente felice. Due o tre di loro la abbracciarono, offrendosi di aiutarla.
Dopo tanto tempo, si sentì a casa.
Grazie a tutti per i vostri commenti, che trovo globalmente positivi, e per gli spunti di miglioramento.
La traccia mi ha ispirato da subito questa storia, in effetti forse troppo già vista rispetto ai classici del genere. Magari ci lavorerò sopra per trasformarla in qualcosa di più compiuto.
Il potenziale per sviluppare la storia c’è. Come ti hanno detto altre persone, in un racconto risulta difficile far entrare tante cose: ambientazione, protagonista, eventi. Lineare, sì, è anche vero che lo spazio è poco. Al tuo posto avrei puntato sulla difficoltà della protagonista e sulla tentazione di abbandonare tutto (durante l’incontro del bot fratello o del bot madre) e concluso così, senza dire necessariamente tutto.
Nel complesso penso che sia una buona prova. Interessante e intrigante il mondo che hai costruito. Una protagonista da sviluppare. Qualche sbavatura nella forma che mi ha distratto un po’ nella lettura. Spero che lavorerai ancora su questa storia perché il potenziale c’è davvero 🙂
Secondo me questo racconto non é da storia breve ma richiederebbe un libro tutto suo. Tante descrizioni del contesto (cosa positiva ma più adatta ad un racconto lungo) che spezzano un po’ la narrazione. Comunque ottimo lavoro
A tratti mi ha trasmesso una certa angoscia. Forse è una trama troppo classica nel suo genere, non ci sono colpi di scena. Però il ritmo è buono e mi sono immaginato tutto mentre leggevo, quindi direi prova superata!
Mi è piaciuto molto come la traccia si sia stata adattata ad un mondo cyberpunk alla “quinto elemento”/”ready player one”.
L’ho letto con piacere anche se delle volte mi sono perso e ho dovuto rileggere alcune parti 2 volte.
Complimenti davvero per l’idea!
La prima a me è piaciuta molto. Dall’inizio della “missione” la ricaduta attenzione sulla sola protagonista ha cancellato troppo del contesto rischiando una serialità di eventi troppo lineari e ripetitivi. È sempre vero che lo spazio ridotto del gioco, porta quasi sempre a una caccia di “conclusione” alla fine, ma sarebbe stato meglio, almeno per me, non averne il finale ma continuare a viaggiare dentro quel mondo come nella parte iniziale.
Mmm un bel distopico! Bene bene.
Quello che posso dire di questo racconto, è che ci sono troppe informazioni…Forse sarebbe stato meglio tenere qualcosa nascosto, lasciare alla fantasia del lettore il compito di colmare le lacune.