Un racconto di DBONES
Qayin sorride, tra un sospiro affannoso e l’altro. Il petto si alza e si abbassa. L’acqua gelida che scende dal rubinetto del lavabo gli intirizzisce le mani. Le dita sono pulite; Qayin sa che il sangue rappreso infilato sotto le unghie è una bestia difficile da stanare ed è lieto che stavolta non debba farlo.
Toglie la mano sinistra dal getto per spostare la manopola. In pochi secondi, da gelida l’acqua diventa bollente. Il dolore gli brucia le nocche e i battiti del cuore tempestano nel petto. Feroci. Violenti fino al dolore fisico.
Il petto si alza. Il petto si abbassa. Ancora. Ancora. Il ricordo dell’omicidio appena perpetrato tiene viva la sua eccitazione. Dio elargisce vita e morte. Qayin solo morte, ma è molto bravo a farlo.
Chiude l’acqua. Fissa la propria immagine che fa capolino dalla condensa sullo specchio. Occhi azzurri troppo spenti per essere definiti belli. Il sorriso persiste sul volto scavato, ma può bastare. Deve bastare.
Allunga una mano a sfiorare lo specchio. Rimane immobile per qualche secondo, quindi fa scivolare il dito indice. Numeri vergati nell’umidità:
24/12/1955 – 7
L’eccitazione si placa e il cuore ritrova una parvenza di regolarità. Stavolta si è comportato bene. Non un lavoro da macellaio; un lavoro da artista. I guanti di lattice e la siringa poggiati sulla mensola accanto allo specchio ne sono la prova. Non serve che li faccia sparire, ma dovrà cancellare il vago senso d’incompiutezza dell’aver tolto la vita servendosi del veleno. Efficace ma privo di anima. Qayin ride. Magari la prossima volta darà sfogo alla propria inventiva. Deve calcolare ogni mossa con la massima attenzione. Se Aclima dovesse trovarlo, tutto quello che ha fatto sarà stato vano.
Asciuga le mani nell’asciugamano rosa. C’è una sorta di isterica perfezione nel bagno in cui si trova; rossetti, smalti e ciprie disposti in ordine cromatico. L’odore penetrante del Cif e la lucentezza dei sanitari. La donna dai capelli neri, che ora giace senza vita nel salotto, doveva essere una maniaca dell’ordine. Qayin pensa che forse lo sono tutte le donne sole. Anzi, Qayin non solo lo pensa. Qayin lo sa.
Lui è il Viaggiatore, ma non gli dispiacerebbe fermarsi nella città in cui si trova adesso. La Milano degli anni Cinquanta è davvero divertente. Carica. Un’ esplosione di speranze ed energia. Tre giorni: gli sembra una decisione assennata. Se si fosse fermato di più, il cadavere avrebbe cominciato a puzzare. La puzza non lo disturba, ma i vicini avrebbero potuto farsi delle domande e, in qualsiasi epoca, loro sono sempre uguali. Curiosi menefreghisti. Qayin adora gli ossimori.
Si slaccia la cintura. Ad ogni passante ha attaccato una fiala. Gliene restano sette. I numeri coincidono. Orina provando una certa soddisfazione nell’intaccare l’immacolata porcellana del water. Si denuda per infilarsi nella vasca da bagno. Ha tempo, il prossimo viaggio può attendere.
L’acqua tiepida lo rigenera. Si perde in pensieri di tempi passati. Asciugatosi, rimette i pantaloni: si accorge che la camicia è strappata all’altezza delle ascelle. Non può certo godersi Milano in quel modo. Nessun problema, avrebbe preso in prestito qualche indumento alla donna in salotto. A lei non sarebbero più serviti.
La donna è come l’aveva lasciata; seduta sul divano. Non fosse per gli occhi spalancati, avrebbe potuto essere addormentata.
Qayin sussulta. Con un gesto fulmineo le abbassa le palpebre: a volte un residuo dell’anima rimane attaccata all’iride. Avrebbe dovuto abbassarle prima. Ha commesso un errore, ma è tardi per pentirsene. Deve solo sperare che Aclima non l’abbia percepito. Quella maledetta possiede un fiuto eccezionale.
Qayin si sposta nella camera da letto del piccolo appartamento. Fruga nell’armadio alla ricerca di un indumento adatto. Li scarta, uno dopo l’altro, gettandoli sul letto alla rinfusa. Non ha pretese, ma non può andarsene in giro con un tailleur. Una camicia, ecco quello che gli serve; può accettare il fatto che sia femminile.
Ne trova una, la butta sul letto assieme agli altri vestiti e sputa una mezza risata. Quella donna era uno scheletro, come aveva solo potuto pensare di mettersi i suoi abiti?
La risata si spegne. Rumore di passi nel corridoio. Passi in avvicinamento. Qayin aveva scassinato la porta senza problemi, ma adesso è aperta. Ad Aclima sarebbe bastato abbassare la maniglia e spingere. Qayin non pensa che quei passi appartengono a lei. Qayin lo sa.
A petto nudo, ritorna nel bagno e chiude a chiave. Si aggrappa al lavabo con entrambe le mani. Gli restano sette fiale, i numeri coincidono. Gli sarebbe piaciuto godersi la città, ma il Fato gioca secondo le proprie regole.
Spezza una fiala e ingurgita la morfina. Fissa la propria immagine riflessa nello specchio fino a vederla svanire. Si domanda dove lo porteranno i ricordi della donna di cui lo specchio è impregnato. Lo scoprirà presto, ma prima deve scoprire il dolore. Perché il dolore del Viaggio è ogni volta una scoperta. Una scoperta terribile.
***
Aclima entra nell’appartamento. Impregna le narici degli odori di quel luogo. Cibo precotto, borse di plastica e morte. Sopra ogni cosa, morte. Un afrore che ha smesso di sconvolgerla. Si è abituata e non è un buon segno. Comunque sia, non può fare nulla per la donna accasciata sul divano. Nulla se non raggiungere il Viaggiatore e porre fine all’orrore che si sta lasciando alle spalle. Aclima stringe l’elsa del proprio pugnale; da quella che dovrebbe essere la porta che dà sul bagno, giungono suoni strani. Vetro che va in frantumi. Gocce di acqua che picchettano sul pavimento. Una. Due. Tre. Quattro gocce. Poi un’infinità. Una piccola cascata.
Forse non è troppo tardi, pensa.
La porta del bagno è chiusa a chiave. Aclima forza la serratura utilizzando una forcina per capelli, ma nella stanza che si apre davanti ai suoi occhi non c’è nessuno. Uno specchio opaco che non riflette alcuna immagine.
«Dove diamine sei andato?» domanda. Solo l’appartamento in cui si trova può fornirle una risposta, deve osservare con attenzione.
Ombretti dai colori tenui. Un pettine. Una boccetta di profumo da quattro soldi. Aclima fruga nel cestino della spazzatura, spostando cartacce inutili e un groviglio di capelli scuri. Niente che possa aiutarla.
La camera da letto è un caos di vestiti. Dall’armadio spalancato proviene odore di naftalina. La banalità di gonne lunghe fino al ginocchio, stracci che si possono trovare ovunque. Aclima sa che deve trovare qualcos’altro. Le serve un pizzico di fortuna, e le serve ora.
Il diario dalla copertina rossa giace in fondo all’armadio. L’oscurità, regno di tarme, lo nasconde a occhi disattenti. Aclima allunga un braccio per afferrarlo. Si siede sul letto. Le molle cigolano sotto il suo peso. Dà un’occhiata alla prima pagina, sperando non sia vuota.
Nessuna di esse lo è. L’inchiostro le colora: a volte è nero, altre blu. Un’unica frase che si ripete a mostrare una mente che ha superato il confine che divide la stranezza dalla follia.
Perché sono viva? Perché sono viva? Perché sono viva?…
Un’improvvisa illuminazione attraversa la mente di Aclima. Senza indugiare oltre, ritorna in salotto.
La donna sul divano non ha voce, ma forse il suo corpo ha ancora qualcosa da raccontare.
La pelle del braccio sinistro, liberato dalla vestaglia che lo teneva celato, mostra la verità. Non c’è gioia nella rivelazione, solo una pista da seguire. Un luogo da raggiungere.
Aclima si prepara al Viaggio.
***
Il viso di Qayin è sferzato da un vento gelido. La neve si insinua tra le crepe delle scarpe logore e la divisa a strisce, che ha trafugato da un mucchio di cadaveri accatastati di fronte a un edificio con canne fumarie che si spingono verso il cielo, non può nulla contro quel freddo straziante.
Qayin si è infilato in una delle quattro file che accompagnano l’uscita di una baracca in legno. Ombre che furono uomini, generate dal chiaro spettrale di fari che stracciano il buio. I comignoli delle ciminiere eruttano fumo denso. Puzza di bruciato.
-7, pensa Qayin. La libertà ha un profumo delizioso.
L’origine del ricordo si trova lì, da qualche parte. Deve solo trovarla.
Metallo sulla nuca. Qualcuno gli sta puntando un fucile.
Povero illuso. Se solo sapesse.
«Du! Zeig mir deinen Arm. Jetzt!»
Qayin si volta.
Ho letto più volte il racconto ma, al di là dello stile e della correttezza della lingua del tutto apprezzabili, dubbi, curiosità, domande, mi rendono difficile comprenderne il senso. Per esempio chi sono i due misteriosi protagonisti che si inseguono, spostandosi nel tempo ed eludendo lo spazio? Perché uccidere una donna (ebrea?) e prenderne il posto in un campo di concentramento? Infine, per favore mi dai la traduzione della frase finale? Forse sta lì il senso che m’è sfuggito.
È interessante. Normalmente un buon racconto dovrebbe essere un proiettile, colpendo il più precisamente possibile l’obiettivo che si prefigura. Qua… non succede. Perchè, in realtà, banalmente, non ci è dato sapere se quel proiettile abbia terminato la propria traiettoria o no – nel senso, non mi è chiaro quale fosse il centro di questo racconto, il cuore.
Solo che invece di renderlo un brutto racconto, questa cosa mette più fame di sapere cosa diavolo stia succedendo. Fossi in te me la terrei buona, la lascerei girare in background e la espanderei come merita 😉
E seguirei anche il suggerimento dei boss: le ripetizioni dei nomi appesantiscono e non servono a nulla. Ma bel lavoro col ritmo, quello funziona bene!
La penso anche io così. È un soggetto promettente. Non c’è abbastanza per capire davvero. Eppure è stata una lettura molto piacevole, più che affascinare comunque ha appena nutrito la curiosità. Difetto: Ci sono due personaggi appena, no?, e non si incontrano mai. la continua ripetizione del nome dei soggetti che svolgono l’azione appesantisce. I personaggi si alternano singolarmente negli ambienti, nominarli così tanto è controproducente. “Aclima”, se sommi tutte le volte che lo hai ripetuto, raggiunge il numero di battute di un piccolo capoverso. 🙂
Grazie per i consigli. Purtroppo non ho avuto tempo a sufficienza per sistemare il racconto come avrei voluto/dovuto. Ti confesso che sono un po’ combattuto sulla ripetizione del nome: da una parte credo che aiutino l’introspezione. Però forse ho davvero esagerato. Ahahah.
Ho fatto quello che potevo. A questo gioco volevo esserci a ogni costo.😊
Sinceramente mi ha appassionato questo racconto. Adoro quei piccoli particolari che non ti lasciano intendere tutto, lasciano spazio alla fantasia 🙂
Ciao Rachel,
Il tuo commento mi fa molto piacere. Cosa saremmo senza la Fantasia?
Scritto bene, ma trovo ci siano alcuni piccoli dettagli che stuzzicano appena la curiosità senza però lasciarmi granché. Non è abbastanza per incuriosirmi. Credo che ci siano basi per creare qualcosa, ma così…
Sento che mi manca il “perché”.
Ciao Seme Nero,
penso che tu abbia ragione. Avessi avuto più tempo, magari avrei regalato al racconto altri spunti di interesse. Ho voluto esserci a ogni costo per questo gioco, pur nella consapevolezza di non avere tra le mani chissà quale storia. In fondo siamo qui per giocare (e imparare).😉
Eh, qui c’è tantissimo che non sappiamo. Si intuisce una sorta di sfida con inseguimento. I nomi ci portano in oriente. C’è una qualche leggenda a cui la storia è ispirata? Sarebbe bello saperne di più.
Ciao Ser,
Il punto di partenza di questo racconto è la storia di Caino e Abele. Liberissimamente ispirato.😅