Un racconto di Black Krystal
Ho caldo!
Prendo le chiavi dalla tasca sinistra della borsa.
Apro la porta.
Chiudo la porta.
Respiro.
Sono a casa.
È stato un lungo turno di lavoro, per fortuna è finito.
Appoggio la borsa sullo sgabello in entrata, mi tolgo i sandali e li ripongo in scarpiera.
Mi passo la mano sulla fronte, senza pensarci.
Caspita, fa caldo!
Come è possibile che faccia caldo? Il mio condizionatore è impostato per partire alle 11 di mattina…
“Non mi dire che si è rotto.”
Con la gola secca, piombo sul telecomando, apro lo sportello dei tasti, swish, e noto che la programmazione è cambiata.
Sistemo l’orario come è sempre stato e aggrotto le sopracciglia: chi l’ha toccato?
“Probabilmente papà, l’altro giorno, quando è venuto a portarmi i pomodori ripieni della mamma…” mi suggerisco.
Non sono convinta. Ieri mattina il condizionatore è partito.
Probabilmente il telecomando è impazzito.
“Forse le pile si stanno scaricando e si sono perse le impostazioni!”
Ecco, questa è una buona spiegazione!
Davvero è buona? Non sono del tutto convinta della mia idea, ma me la faccio andare bene. In fondo ho sistemato tutto.
Vado in cucina. Bevo sempre un caffè dopo ogni turno, anche quello di notte. Sì, sembra un controsenso, eppure per me è un rito. Anche oggi, comunque, andrò a riposare, anche se è pomeriggio, anche se dovrei fare la spesa, anche se fa così caldo che non so se riuscirò ad addormentarmi.
Sbadiglio.
“Che stanchezza!” sussurro, prendendo la caffettiera. Cerco di svitarla, ma è troppo dura.
“Ogni volta così, non è possibile!”
Apro il primo cassetto alla mia destra per prendere un panno di gomma, che uso per aprire i vasetti.
All’inizio non lo vedo, non è al suo solito posto. Poi noto che è scivolato in fondo.
“Mi siete tutti contro stamattina?”
Lo prendo e finalmente sblocco quella macchinetta infernale! Ripongo la gomma, poi pulisco e riempio la moka. Ed eccola lì, con mia gioia, sul fuoco.
Mi affaccio alla finestra: il sole ha un colore caldo, fa quasi paura. Sembra possa incendiare qualsiasi oggetto che sfiora.
Amo questo momento della giornata, quando so che non devo uscire e mi godo il fresco di casa. Quella luce così intensa, così forte. Mi regala energia e voglia di vivere. Oggi no, però. Odio troppo il caldo, mi innervosisce. Mi passo la mano sulla fronte: sto sudando. “Maledetto condizionatore!” impreco.
Dopo un po’ sento il caffè salire nella moka.
Cerco la tazza bianca, quella che uso solo per me, quando sono da sola. È sullo scolapiatti. Allungo la mano, la afferro, la sollevo velocemente e nel farlo urto un bicchiere.
Crack. Stringo le labbra. Poso di fretta la tazzina sul piano della cucina. Prendo in mano il bicchiere, sperando sia integro, invece noto una crepa. Una linea che parte dal bordo in alto e scende fino a metà altezza.
Faccio un respiro profondo.
“Succede.” mi dico.
Apro il cassetto sotto il lavello e butto il bicchiere. Ormai è inutilizzabile.
Chiudo il cassetto e verso il mio caffè.
“Era solo un bicchiere, non era importante.” mi ripeto. Nonostante le mie buone intenzioni, il fastidio mi riempie lo stomaco, sommandosi a quello per il malfunzionamento del condizionatore.
La tazza bianca diventa calda. Per un momento la odio, ancora calore? Però il liquido scuro libera fili di fumo chiari, che seguo con lo sguardo: li lascio salire per un po’ e mi rilasso.
La luce che entra dalla finestra rivela sulla superficie del caffè sfumature color cioccolato che adoro. Sorrido. Mi siedo, viso alla finestra e lo sorseggio. Mi fa stare bene.
Quando lo finisco, metto la tazza nella lavastoviglie. Un clang, mi fa tremare impercettibilmente, ma era solo il rumore della ceramica sul cestello, nessuna nuova crepa.
Respiro.
Il caffè ha scacciato il fastidio dal mio stomaco, per fortuna.
Posso andare in bagno a lavarmi i denti.
Percorro il corridoio stiracchiandomi, “Uaaah!” sbadiglio.
Inciampo e sbatto contro la parete.
Tump.
Il cuore batte forte per lo spavento.
Premo fronte e palmi alla parete fresca, inspiro, cerco di recuperare l’equilibrio.
Per terra, ho pestato qualcosa per terra.
Nel corridoio vedo un mio sandalo. Uno solo.
Lo prendo in mano e penso sia impossibile.
Cammino veloce verso la scarpiera, la apro e cerco i sandali, entrambi. Quando sono entrata li ho messi dentro, lo faccio sempre.
Un sandalo c’è, uno solo. Ma dell’altro, nessuna traccia. Ovviamente. Ce l’ho in mano.
“Che strano.” non riesco a trattenermi di dire.
Lo ripongo di nuovo vicino all’altro. Cerco di non pensarci, di non farmi troppe domande… perché si trovava lì? Non voglio pensarci, voglio solo dormire. Sono stanca, ecco, molto stanca. Altro che spesa, devo dormire. Torno sui miei passi. Entro in bagno, ma qualcosa non va.
Mi guardo attorno.
Qualcosa non va.
Non capisco cosa… mi sento strana, come se non fosse il mio bagno.
Qualcosa non va, mi ripeto.
La sensazione è sempre più forte, eppure non visualizzo nulla che sia diverso dal solito.
Eppure, qualcosa non va.
Comincio ad avere il fiato corto. Ansimo come se avessi corso.
Nella mia mente scorrono le immagini del condizionatore, del panno di gomma, del sandalo… tutto strano, tutto fuori posto.
Mi afferro le mani, me le contorco e l’ansia mi impedisce di muovermi.
“Greta,” mi faccio coraggio “Questa è casa tua, di cosa hai paura?”
Lo so di cosa ho paura.
Dei ladri.
Temo che ci sia qualcuno in casa.
Inspiro, espiro; chiudo gli occhi; inspiro, espiro.
“Non essere sciocca.”
Un brivido mi percorre la schiena, mi faccio male alle mani: non riesco a togliermi quest’idea dalla testa.
Se ci fosse qualcuno qui?
Sì, ma qui dove?
Il cuore batte più forte.
Tum-tutum, tum-tutum.
In camera. Nella mia camera.
I miei occhi si spalancano in cerca di una traccia.
Caccio nel silenzio il minimo rumore, il minimo indizio.
Ma le mie orecchie e la mia mente sono fracassate dal battito del mio cuore.
Sudo.
Non avere paura, penso. Vai in camera, la troverai vuota.
Avanzo di un passo, poi mi fermo.
Forse dovrei prendere un’arma… ma cosa?
Deglutisco. Un’arma in casa mia? Che sciocchezza!
Con passo riluttante arrivo alla porta della camera, quando SBAM!
Salto all’indietro, mi copro la testa con le mani.
Adesso mi scappa la pipì.
Il cuore è impazzito e ogni muscolo del mio corpo trema.
Attendo.
Mi sorreggo alla parete. Inspiro tremando.
Rilascio le braccia.
È il mio vicino.
Il rumore non viene dalla mia casa.
Il mio vicino è uscito e ha sbattuto la porta, come sempre.
Apro e chiudo le mani.
Apro e chiudo la bocca.
Deglutisco.
Sto bene, mi dico nella testa.
Quel rumore mi stava per uccidere come fosse uno sparo.
Deglutisco di nuovo. Ormai mancano pochi passi alla mia camera. Ho sempre più caldo. Avanzo, la porta è aperta, come sempre. Appoggio la mano sulla maniglia fredda, per sostenermi.
Ed eccola la mia camera.
Mi mordo il labbro.
Il mio corpo entra nella stanza.
Una mano finisce in mezzo ai capelli e l’altra va sulla pancia: mi sale la nausea.
Ogni cosa nella mia stanza è sottosopra: i cassetti sono rovesciati e nuvole di vestiti punteggiano la camera.
“I ladri.” le parole escono a fatica dalla gola secca.
Guardo rapidamente intorno, ma non vedo nessuno. Con uno scatto sono alla porta finestra, la spalanco. Il sole mi acceca, mi sento persa.
“AAAAAH!” grido con tutte le mie forze.
Non vedo, ho paura, non vedo niente!
Ho caldo, ho paura, soffoco!
Agito le mani in avanti, fendo l’aria con i pugni stretti, urlo a ogni colpo. Ci metto tutta la forza che ho.
“Ah.” e colpisco a destra.
“Aah” e colpisco a sinistra.
“AAAAH!” e colpisco al centro.
La forza disperata mi trascina quasi a terra. Faccio istintivamente un passo in avanti per non cadere e sento una fitta al braccio destro.
Il braccio sinistro scatta verso la direzione dell’urto. Caccio un urlo che mi raschia la gola, le orecchie ronzano, stordite dal suono orribile della mia voce e dal tamburo impazzito che è il mio cuore.
Sento un criiiick accompagnato da un dolore acuto: capisco di aver ferito solo l’albero a lato del condominio, i cui rami sono cresciuti più del dovuto e stanno in agguato sopra il parapetto della terrazza.
Tremo: ho ancora gli occhi chiusi, per il sole, per la paura.
Inspiro, l’aria calda sembra entrare liquida dentro di me.
Ho caldo, ho paura.
Ma devo, devo guardare.
Mi faccio coraggio, schermo gli occhi con le mani. Mi sforzo ad aprire le palpebre, lacrimo, finalmente vedo. In terrazza, come pensavo, non c’è nessuno.
Un suono secco mi esce dalla gola arida.
Mi sento senza energie.
Guardo la mano con cui ho colpito il ramo, penso sia ferita, invece è solo uno striscio, niente sangue. Niente dolore.
Ho caldo.
Strascicando i piedi, torno in camera.
La vista del caos mi provoca di nuovo la nausea. Mi tappo la bocca con la mano, ma resto lì.
Una goccia di sudore mi cola sulle dita.
“Sono andati via! Ma da dove? E se sono scappati, vuol dire che sono entrati, ma da dove? La porta era chiusa a chiave e tutto era normale, all’esterno.”
Batto i denti.
Ho caldo, sudo, però non riesco a tenere fermi i denti.
All’esterno.
Ma all’interno?
Nausea.
Mi gira la testa.
Sono dentro.
Sono ancora dentro.
I cassetti svuotati, gli abiti gettati alla rinfusa non mi aiutano a riflettere. Il caos fuori mi fa caos dentro.
Chissà cosa hanno rubato… penso. Ma non ho tempo per questo, devo difendermi.
Mi sento una formica.
Afferro la lampada del comodino, è di acciaio e vetro, a qualcosa servirà. La stringo più forte che posso e cerco di uscire dalla stanza. Avanzo a grandi passi verso il corridoio, cercando di non calpestare i vestiti per terra.
Sento il sangue scorrere rovente.
All’ingresso non c’era nessuno, in cucina nemmeno. Il soggiorno l’ho solo attraversato…
Con passo leggero percorro il corridoio. Entro in soggiorno.
Un raggio obliquo sembra tagliarlo in due.
È bellissimo visto così, come se fosse diviso in due realtà.
Alzo la lampada, pronta allo scontro. Eppure non sento nessun rumore, non colgo nessun movimento.
Solo… solo i cioccolatini… I cioccolatini che tengo nella ciotola d’argento sopra il tavolino, sono spariti.
Non rinuncio mai al cioccolato, nemmeno d’estate.
Abbasso la lampada.
Con la mano sposto la ciotola, tlin, che suona contro il vetro del piano.
“Eh.” mi viene da ridere. Ladri di cioccolato?
Sospiro.
Non vedo nessuno.
Ingresso a posto, cucina a posto, corridoio idem, camera sottosopra, ma vuota… mi resta solo il bagno.
Stringo ancora più forte la lampada, seguendo l’esempio della stretta della paura che mi afferra la gola.
Ennesimi passi sul piccolo corridoio. Con una mano stritolo la lampada, l’altra la porto verso il cuore che sembra scoppiare. Mi massaggio il petto.
Il tessuto su cui la mia mano si muove come un robot difettoso è morbido. Fruscia. Fru, fru. Sento di nuovo il sangue diventare infuocato.
Non è la mia divisa da infermiera.
Abbasso la testa in due scatti, i miei muscoli non mi sembrano più miei.
Indosso un vestito di raso rosa a fiori bianchi, quasi splendenti nella luce del giorno.
Quando mi sono cambiata?
Deglutisco.
Entro in bagno con passo d’automa.
Abbraccio la stanza con lo sguardo, ma è vuota.
Sento un plim.
Cerco di non pensarci.
Cerco di non sentirlo.
Fisso un punto davanti a me e la mia mente si blocca su una sola frase: ci sono solo io.
Plim.
Me lo dico, mentre capisco cosa mi disturbava prima. So cosa non andava.
Plim.
È la mia immagine allo specchio, quel qualcosa di stonato.
Plim.
Sono io, sì, mi fisso incredula. Sono io, però una io vestita di raso a fiori splendenti, con uno sbuffo di cioccolata sulla guancia destra.
Plim.
Sono io.
Plim.
La mano allenta la presa sulla lampada, che resta in equilibrio su tre dita.
Plim.
Con lentezza giro la testa, gli occhi sono attirati dalla fonte di quel Plim.
Ho sempre più paura.
Ho sempre più caldo.
Plim.
L’occhio vede, la mano cede.
Cade la lampada in un TLEEEENG che mi fa tremare le viscere.
No, non è il suono a crearmi nausea.
È il plim.
È il vetro della lampada che era già rotto prima di cadere.
È il plim che continua.
È il sangue che mi cola dalla mano sfregiata.
È il fatto di non sentire dolore.
È il caldo che mi scioglie i pensieri.
Plim.
Batto i denti. Teten-teten-teten-teten.
La testa si ritrae da quel pavimento a pois di sangue, che non può essere mio.
Senza desiderarlo, il mio sguardo mi fissa di nuovo allo specchio.
“Qui ci sono solo io.”
Io, con un vestito a fiori, la cioccolata sulla guancia e una mano che stilla sangue.
“Sono io!”
So che è la verità, ma non è la soluzione.
Lacrime morbide strisciano incandescenti sulle mie guance.
Un sorriso si stira gelido sul mio viso.
È l’angoscia che sorride al mio riflesso.
Tremo.
La luce mi colpisce dalla finestra alla mia sinistra.
È il momento in cui ho più paura di me.
Ho caldo.
Mi è piaciuto molto che tu abbia scelto come ambientazione per incutere paura ciò che per ciascuno dovrebbe invece essere il nido accogliente, tranquillo. La casa. Ottima scelta, davvero. Interessante anche l’uso delle onomatope continue, l’ho scritto anche sul primo racconto, nell’horror puntare sulle sensazioni uditive è sempre una scelta azzeccata, perché crea tensione. Che ci fossero davvero i ladri, o che la protagonista soffra di una forma di schizofrenia o di dissociazione della personalità, sarebbe interessante scoprirlo. E’ un buon incipit con un buon personaggio. Complimenti!
Devo dare ragione, l’idea non è male, ma la struttura a piccoli calibri, piccole pallottole secche rende quella che dovrebbe essere una diga che cede in una lunghissima gradinata fatta di scalini piccolissimi. l’intento è chiaro, e questo già è un risultato, ma l’effetto ottenuto è quello di essere travolto da un piccolo stormo di pallini di derringer alla volta. Impatti fastidiosi ma non imponenti, non travolgenti. però l’idea e il tentativo non sono male.
Ho trovato il ritmo calzante. Apprezzo anche la scelta di spazzare la narrazione così, mi sembra funzionale. La parte finale è un crescendo, si arriva alla fine anche noi con il fiatone.
Secondo me funziona così. Se dovessi per forza suggerire qualcosa, mi concentrerei su quelle espressioni come “tremare” e “sentire il cuore scoppiare”, che tendono a tornare e che magari si potrebbero rendere anche in modo un po’ diverso, ma questa è una riflessione che ti invito a fare. A me il racconto piace già così.
Quando ho iniziato a scrivere ho iniziato così, con frasi molto corte e spesso nominali. Senza dubbio è il mio stile, anche se non lo uso in tutti i miei testi. In questo caso non mi ero nemmeno accorta che fosse predominante, perché il tema mi è davvero ostico. Non leggo libri e non guardo film horror. Ho davvero poco materiale altrui a cui attingere e l’ho sentita proprio come una sfida.
Sono contenta comunque che sia abbastanza arrivato, per cui posso dirmi soddisfatta del risultato. Ma vi chiedo, secondo voi era meglio se avessi usato una prosa meno spezzata?
Ammetto anch’io di non essere molto attratto dai testi ricchi di periodi corti (ho avuto una brutta esperienza con un romanzo tutto così u_u”).
L’idea di trasmettere la paura veicolata dal caldo è buona, soprattutto ho apprezzato la discesa verso il folle distaccamento dalla realtà, esprime bene la difficoltà di chi lavora di notte e viene stravolto dallo sconvolgimento dei propri ritmi biologici, è la mente che si ribella.
Buona prova!
Non sono una grandissima fan delle frasi spezzate, dei punti fermi imperanti, della paratassi sempre e comunque.
Ma.
… qua mi sembra una forma azzeccata. È molto “grafica”, sembra di scorrere i balloons di un fumetto – complici anche le onomatopee. Si “vede” tutto davvero bene e questa ideale divisione in vignette aiuta a tenere il ritmo anche là dove io, a una certa, soccombo alla mancanza di pause. È un bel lavoro 🙂
Grazie!