Un racconto di StellaOscura
Marta, 1.0
Le larve. La decomposizione.
Sono morta così la prima volta?
Uno splendido pomeriggio di maggio. Il ciliegio pieno di fiori, e i fiori di api. Un giardino pieno di vita, insomma, ma la cosa più interessante era quello che accadeva sotto, nella terra, dove i miei occhi non potevano arrivare.
Le larve bianche, molli, in azione su qualche carcassa di animale seppellito sotto l’erba che la morte rendeva ancora più rigogliosa, proprio come gli acquazzoni primaverili.
Le larve.
«Vattene via!» gridai a quell’ombra che era apparsa e scomparsa nell’angolo sinistro della mia visuale. «Anche quest’anno ci scorderemo le ciliegie».
La natura è sempre così egoista. Ruba tutto e non lascia niente. Se mai dovesse sbucare un frutto, ci penserebbero gli uccelli. E dopo gli uccelli…
La decomposizione.
Mi era sembrato di galleggiare e poi invece ero caduta a terra. Non era leggerezza, quella. Era il vuoto.
Ero certa di aver perso qualcosa. Ma che cosa?
«Ma io sono ancora qui, Marta, proprio vicina a te».
«Eh?»
«Dovresti guardarmi, così capiresti. Sono io, sono te, non ti riconosci?»
E c’era un’altra me, in effetti. Era fatta d’ombra e di luce.
«Chi sei?»
«Ascolta…»
Si era avvicinata e aveva sussurrato impudicizie indicibili. Aveva guidato la mia mano a scavare, a nutrirsi di tutto ciò che gli altri scartano e rifiutano. Perché siamo noi gli scarti e i rifiuti. Ci rosicchia come fanno le larve, con morsetti così delicati da essere appena percepibili. Ci fa vivere come larve, nascoste, affamate, mai appagate.
«Ma tu non sei morta, Marta».
Perché quella sensazione di vuoto, allora?
«Non sei ancora morta, Marta».
*
Marta, 1.1
Mi sto solo putrefacendo, non è vero? Il mio viso non invecchia più, semplicemente perde pezzi.
«Saresti così gentile da passarmi quella larva cicciottella, Marta? Sembra proprio un dolcetto appetitoso» latra l’altra me.
«Vai al diavolo!»
«Oh, Marta, per quello non ho bisogno di un invito».
L’altra me si avvicina, la vedo per un istante prima che scompaia. Mi pizzica il braccio, afferra una larva e la inghiotte.
Le larve. La decomposizione.
*
Luca 1.1
Ho spiato a lungo il suo corpo baciato dai raggi del sole. Lo incorniciano i bordi del buco della serratura. Ha un modo diverso di stendersi sul letto. I piedi, sì, sono loro. Marta ha sempre incurvato le dita in avanti, mentre la donna che l’ha sostituita le piega all’indietro.
Deve essere successo un pomeriggio quando è uscita di casa. Al suo rientro, non era lei. Qualcun’altra aveva preso il suo posto. Aveva la pelle appena più pallida, di un sottotono più freddo. Quando ha aperto la bocca e ha parlato, la sua esse non sibilava più. Come se le si fosse prosciugata tutta la saliva, insomma! Ma perché avrebbe dovuto perdere tutta la saliva? Le sarebbe bastato bere dell’acqua e le sarebbe tornata. Sì, è vero; se non fosse stata sostituita. Sì, un’altra al suo posto. Una simile a lei, quasi identica, ma io l’amo troppo e amo ogni millimetro di lei e amo anche il modo in cui a volte si fermava proprio sul letto a tagliare le unghie e amo… insomma, sono uno che ama i dettagli. E quelli di Marta li conosco a memoria. Li amo così tanto, come l’unghia che taglia appena la pelle dell’alluce destro, che a volte non li sopporto. Li odio, come odio Marta – Dio mi perdoni, ma è tutto vero! – Ma quella di là, sul letto, non è Marta. Ho pensato tante volte ad affrontare la situazione, a metterla alle strette, insomma. A chiederle di restituirmi la mia Marta, la mia dolce Marta, e non quell’essere che continua a osservare il proprio braccio, dice di aver prurito ma non lo gratta, no, perché potrebbe impazzire, dice. Sì, dice tante cose e poi si graffia la faccia. Di quella non ha paura. E poi perché dovrebbe? Prima o poi attaccherà anche me, ne sono sicuro.
L’ho cercata dappertutto. La vera Marta, intendo. Ho trovato anche della terra nel giardino, fresca, smossa. Esseri viscidi si facevano strada su quella collina e ho vomitato tutto il pranzo in un angolo, ma se volevo sapere – e io dovevo sapere – è stato necessario affrontare quel disgusto e scavare. A mani nude, certo, perché non c’era tempo per cercare dei guanti. E loro scivolavano tra le mie dita, sembrava persino che si divertissero. E quando sono arrivato al fondo, al punto dove doveva esserci qualcosa, doveva esserci lei, quella vera, la mia dolce Marta non c’era. C’era solo terra più umida e scura.
*
Marta, 1.2
Luca era là, dietro la porta.
«Che cos’hai da guardare?»
Riuscivo ancora a sentire il suo respiro affannoso, il suo respiro vivo. No, lui non è morto e anche le mie orecchie per ora funzionano. Verrà il momento in cui si staccheranno, come il mento, ma quel momento non è questo.
«Lo so che sei lì».
«Dov’è?» mi ha chiesto. «Che cosa sei?»
«Non sono quale sia la risposta giusta, Luca, ma sicuramente la domanda è sbagliata. Avresti dovuto chiedermi che cosa fossi».
Luca non ha mai capito la morte. Luca non ha mai capito la morte, perché non ha mai capito un cazzo della vita.
*
Luca, 1.2
Una pioggia di luce mi colpisce appena entro nella stanza. Non viene da lei, ma dalle finestre nude. Riflessi di cristallo si rincorrono sul soffitto e poi cadono giù, sul suo corpo, e sembrano tagliarlo.
L’odore di Marta. Entra nelle narici e cola caldo giù nella gola. Lo stomaco si contrae e adesso il tepore risale, si fa strada verso la bocca. Non profuma più di melograno, quella fragranza che mi aveva fatto innamorare di lei. È più dolce, più forte, più insopportabile. Perché diventa presto troppo insistente, troppo estranea, e mi convinco che non può essere suo.
Mi siedo vicino a lei, aspetto che si addormenti. Quando il suo respiro diventa così pesante da sembrare un rantolo – e la mia Marta non ha mai russato! La mia Marta è sempre stata così delicata, Dio mi è testimone! – scendo dal letto e inizio a cercare. Che cosa? Non ci sono vestiti strappati né richieste di riscatto: non ha lottato con un aggressore, nessuno mi ha proposto uno scambio per riaverla indietro. A volte mi viene da pensare che sia un essere mostruoso quello che è arrivato al suo posto. Che l’abbia uccisa, inghiottita, che se aprissi la pancia della cosa che ora dorme sul letto, troverei Marta, la mia Marta, la vera Marta e non questo ammasso di carne e ossa che di Marta ha solo l’aspetto, ma non l’anima. La mia Marta aveva l’anima. La mia Marta aveva l’anima?
*
Marta, 1.3
«Non manca molto, Marta».
Forse non sono del tutto morta, ma non sono neanche del tutto viva. Sono a metà, sospesa.
Aspettare a occhi aperti, con quel che resta delle palpebre, mentre il campo visivo si riduce sempre più.
Quando muori non si spegne la luce.
Quando muori diventi luce.
È qui: la sento ma non la vedo. Che sbadata che sono. Tutto segue il proprio corso. La morte sta solo facendo il proprio lavoro.
«Non manca molto».
*
Luca, 1.3
Ho sentito un’altra voce, simile a quella di Marta, ma non identica. Una voce più rauca e insieme sottile. Sembrava provenire dalle viscere della Terra. Non disperava, non implorava aiuto. Mi è parso di udire anche una risata, una risata grassa e grossa, una di quelle che finiscono per morire con uno scoppio di tosse e del catarro che cola dalla bocca. Un’altra Marta, ma nessuna di loro è Marta.
Forse sbaglio tattica. Se mi mostrassi affabile, se sembrasse che sono lì per loro e non contro di loro, riuscirei a scoprire che cosa hanno fatto davvero alla mia Marta.
«Vuoi dell’acqua?» chiedo alla sagoma distesa ancora sul letto.
C’è un carillon appeso fuori dalla finestra, si muove a tempo con il vento. La melodia è dolce, se si alzasse un po’ di più e arrivasse una bufera lui diventerebbe frenetica tempesta.
«Deve fare caldo, oggi» dice evitando le parole con la esse. È furba: non vuole farmi capire che Marta non è Marta.
«Vuoi uscire?»
Incrocio i suoi occhi, mi sembrano persi, appena impauriti. Fissano un punto dietro alle mie spalle e io mi volto. È lì che la vedo: ha il volto più florido, le guance appena rosate. Sul suo viso è dipinto un sorriso pieno di denti. Ha troppi denti, ecco, e alcuni sono appuntiti. Si passa le labbra sulla bocca – Dio mi fermi se non dico il vero! – ed è biforcuta.
Un raggio di sole illumina quella strana figura e non scorgo ombra. Tutto in lei è luce. Così mostruosa, così piena di vita.
«Sì» risponde quella sul letto. «Vorrei proprio scegliere il posto giusto».
Torno a osservarla: gli occhi febbrili appena visibili, le guance ancora sporche di sangue. Quella alle mie spalle, invece, se ne è andata. Non la sento più e soprattutto non avverto il suo odore. Profumava di pelle bruciata, arsa dal sole o da un’esplosione. E insieme, appena percepibile, del fiore di magnolia.
«Ma prima portami dell’acqua, per favore. Ho bisogno di rinfrescarmi» conclude.
Obbedisco. Esco dalla stanza. Respiro. Quella non è Marta, ma io respiro.
*
Marta, 1.4
«Non vorrei che ti perdessi i fiori di ciliegio con questa luce. Alcune foglie sono così sottili da sembrare trasparenti».
«Come la mia mano?»
*
Luca, 1.4
Afferra il bicchiere, ha sempre bevuto senza far rumore. È una donna raffinata la mia Marta. Se sorbirà facendo chiasso, avrò una prova in più che lei non è lei. Marta, ma dove sei? E chi sono queste donne?
Marta alza il bicchiere, lo avvicina alla bocca e la apre quanto basta. Se lo porta sopra la testa, si versa l’acqua sui capelli. Per un attimo la sua pelle sembra sciogliersi.
*
Marta, 2.1
«Qui dovrebbe andare bene».
«Il ciliegio» sussurra Luca.
«Dove tutto è finito».
«Tu non sei Marta».
«Sono morta qui, Luca».
«Alla luce del sole i fantasmi non si vedono».
«Allora potrei essere solo mezza morta e non morta per intero».
Spalanca gli occhi, mi guarda.
«Avvicinati, Luca. Ho una cosa da dirti, ma non voglio gridare. Avvicinati, avvicina l’orecchio».
Se avessi fame, potrei morderlo, ma io sono morta e non sento la fame.
*
Luca, 1.5
Affondo il peso sul piede, il metallo della vanga combatte con le radici. Vorrebbero bloccarlo, ma io scavo, devo scavare, è lei ad avermelo chiesto. Una buca grande quanto me, e per un attimo, un attimo un po’ troppo lungo – Dio mi fermi se non dico il vero! – penso che sia per me.
La donna che ha preso il posto di Marta vuole uccidermi. È lì, davanti a me, nel suo fiato sento la morte.
«Basta».
«Vado».
«Aspetta».
Le radici si intrecciano ai miei piedi e mi bloccano qui.
«Dammi un bacio prima che arrivino…»
La sua lingua si fa spazio nella mia bocca. Sento il bisogno di vomitare, poi lei si stacca e inizia a ridere.
Mi pulisco le labbra con la mano e mi allontano senza voltarmi indietro.
*
Marta, 2.2
Neanche il disgusto. Allora è vero: sono proprio morta.
*
Luca, 2.1
Se ne è andata, non so dove, l’ho cercata – Dio mi è testimone! – ma non c’era più. Risucchiata dall’Inferno. Da lì veniva e da lì è tornata.
Ha rimesso la terra fresca a posto, forse l’avrà riempita con un seme di ciliegio. L’anno prossimo nascerà un altro ciliegio troppo vicino a questo e dovrò travasarlo. A questo non ci pensa, Marta, la mia Marta, perché lei in fondo di botanica non ne sa niente. Ha mai saputo qualcosa la mia Marta? Con quella sua esse sibilante e la lingua biforcuta come quella di una vipera. Avrebbe dovuto tacere di più, la mia Marta. Eppure, l’ho sempre amata. Anche quando allungava quei piedi troppo magri sul pouf del divano, con il suo smalto rosso sbeccato, e le pantofole che puzzavano – sì, puzzavano! Si può amare anche nonostante i difetti, no? – proprio sotto al mio naso.
Un fascio di luce nel mio campo visivo, proprio all’angolo dell’occhio sinistro. Leggiadro e insistente, come il pensiero che qualcosa mi stia abbandonando. E lì la vedo, la farfalla dalle ali di vetro posata sulle foglie di quel brutto ciliegio. Non ha mai fatto frutti, quest’anno saranno ottimo concime.
La farfalla: mi avvicino, provo a toccarla, vola via. Il fascio di luce è ancora lì.
«Non manca molto, Luca».
Porto le mani al collo e ho l’istinto di strozzarmi. Mi avrà drogato, mi avrà fatto diventare pazzo.
«Non manca molto. Faresti meglio a prepararti».
Quando entro in casa, il riflesso balugina sul pavimento. Non sono solo, lo sento, ma sono più vuoto, più leggero.
*
Marta, 0.1
Quanto ci mette a morire un morto?
Ho un biglietto in tasca, forse scavando lo troverà.
Ho scritto soltanto
Scusa per le larve.
Se dovesse cercarmi, un giorno, quando sarà troppo tardi.
*
Luca, 0.1
Quanto ci mettono i semi a germogliare? Dipende dalla stagione?
Qui il sole batte sempre più forte. E continuo a vedere questo odioso fascio di luce che mi perseguita ovunque mi trovi. Ho pensato che fosse il fantasma di Marta – Dio mi perdoni, che blasfemia! – ma chi se ne va non diventa mica uno spettro. E i fantasmi sono ombre, non fasci di luce!
Comunque mi comporto bene, casomai dovesse tornare: annaffio la terra tutti i giorni. La tengo umida, penso sia importante. Forse un giorno mi metterò a scavare e troverò… Forse un giorno, ma non questo giorno.
Se solo si spengesse questa luce. Se solo il sole spegnesse questa luce.
«Non manca molto, Luca».
Che cosa è stato? Veniva da sotto, dalla terra. Che stupido, che stupido, che stupido. Mi sto lasciando impressione troppo, no? La sparizione di Marta, dell’altra Marta… Forse il sole mi gioca brutti scherzi.
Se solo si spengesse questa luce. Se solo il sole spegnesse questa luce.
Se solo_
Il doppio punto di vista crea sempre un alone di mistero e in un racconto dell’orrore è una buona scelta per trovare un modo di incedere che non sia troppo rapido, e che lasci tracce in sospeso. L’ambiguità qui la fa da padrone. Ci saranno davvero due Marte, o piuttosto è Luca a non volersi staccare dall’idea della Marta che è scomparsa? Quella nausea poi, è per qualcosa che lui ha fatto e non ricorda? O piuttosto per un qualcosa che aleggia davvero nei pressi del ciliegio, sotto il giardino, insieme alle larve?
Quei numeri puntati, cosa marcano, poi? Se volevi darci del mistero, beh, ci sei riuscita alla grande ;).
Hai ben dosato anche gli effetti visivi della luce e delle ombre, fra l’altro. Brava!
Sì, vero, un buon esercizio. Ma qui emerge un”andatura da monologhista. Buona per l’interpretazione teatrale, ma tende a reprimere la linea grafica e fotografica delle scene e dei personaggi. Ora c’è da allenarsi all’interazione reale tra personaggio e ambiente intorno.
Ciao Stella,
la frase finale è la ciliegina sulla torta di questo inquietante racconto. Mi é piaciuto. Non so che sbocchi potrebbe avere in un romanzo (scopo finale dei giochi Lpv), ma come storia in sé non è niente male.
Misterioso, un racconto che ti lascia pieno di dubbi e inquietudine.
Un ritmo sincopato, ripetizioni continue ma non pesanti. Stile pulito.
Complimenti, davvero!
Un bel racconto! Le larve sono abbastanza schifose, ammetto. E la parte di malattia mentale è inquietante!
Credo sia il racconto che mi è piaciuto di più. E non son certa di averlo capito del tutto, eh? Nonostante il titolo chiaro. Ma c’è qualcosa nel lessico, nell’atmosfera che hai creato – in quell’incipit che m’è piaciuto da morire, nella frase finale che m’è piaciuta pure di più – che semplicemente mi piace.
Il commento è poco utile dal punto di vista di “come migliorare il racconto”, immagino… ma per me non è da migliorare. Va benissimo così.