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Azzurra la lepre e Tom il bambino

Disse al padre: “Io vado via”.
Disse alla madre: “Addio”.
Entrambi si guardarono perplessi. “Questa è …?”, l’uomo alla donna.
“… la sesta, se non sbaglio!”, la donna all’uomo.
“Va bene”.
Lei riprese a pelare patate come se nulla fosse. L’uomo, fucile in spalla fece cenno che sarebbe partito ancora una volta a caccia: era la terza volta quella settimana.
Giunto all’uscio, il ragazzo tentennava nel fare il suo ultimo passo, poi, senza aggiungere altro uscì dalla casa, deluso: era la quarta volta, forse la quinta, che tentava di comunicare qualcosa al cospetto dei suoi genitori, ma nulla di fatto, la porta del dialogo le venne sbattuta in faccia senza tanti complimenti.
In quella strana estate che pareva non trovar mai fine, il dodicenne pensò di non essere stato chiaro a sufficienza. Quel continuo disinteresse nei suoi confronti, lo convinse che il famelico bottino di dozzine e dozzine di lepri, aveva di certo la precedenza su qualsiasi altra questione. Questa volta, a differenza delle altre, non sbatté forte la porta prima di uscire: togliere teatralità al gesto non era atto da eroi, “ma delle volte”, il silenzio di un’azione, pensò lui, “e persino più assordante di uno sparo”.
Partì senza girarsi, verso i luoghi dove tutte le bestie figlie del mito, della leggenda e talvolta del diavolo, crescono i propri cuccioli. Giunto alla fine dello stradello, trovò il padre ad attenderlo. I due incrociarono lo sguardo per una volta ancora, in un attimo che sapeva di eternità. Fu in quel momento che il disattento uomo capì che qualcosa non tornava: lo sguardo determinato di quel marmocchio sapeva ora di millenaria sfida. Come da copione, coriaceo nel sentimento, impermeabile alle più tenere emozioni, il vecchio burbero si lasciò scorre tutto addosso, come se nulla fosse.
“Vado a lepri, sai dove trovarmi”, disse al figlio.
Era certo che di lì a poche ore il moccioso sarebbe rincasato con la coda tra le gambe. Abbozzò un sorriso di compiacimento per poi lanciarsi dritto nella fitta foresta. Il giovane non aggiunse altro, ma tra i denti, serrati con forza, una frase uscì lieve: “Buona fortuna!”, quando un calcio nel culo ben assestato, lo colse in pieno sollevandolo da terra.
Era il padre, che non avendo gradito quella frase troppo poco ben augurante, decise di scaricare tutta la sua frustrazione a quel modo. La madre scorse la scena dal cortile: “Se lo sarà di certo meritato”, continuava a ripetersi, certa che la ragione poteva essere che da una sola parte.
Il giovane, decise di non piangere, ormai di calci nel sedere quell’estate ne aveva presi così tanti da aver persino perso il conto. In città lo chiamavano il piccolo ribelle, un esempio da non seguire. Quando qualche ragazzino non filava dritto, il modo migliore per spaventarlo era quello di proporre ai genitori una settimana di soggiorno alla dimora del “Cacciatore”.
La leggenda del burbero uomo e della fatalista moglie era ormai di casa.
Il giovane Tom si rialzò da terra, mise il cappello in testa e correndo veloce come una saetta si riparò tra i cespugli. Ripreso fiato, iniziò a ridere a crepapelle, quando dalla bocca, gli uscì a gran voce: “Buonaaaaa Fortunaaaaa!”.
Il padre era ormai lontano, quando un rumore ridestò la sua attenzione. Decise di seguire quelle orme per ore, quando d’improvviso scorse una grossa lepre dal colore azzurro. Prese a seguirla con fare attento. Incuriosito com’era non si era reso conto di essersi spinto nel profondo della foresta. Le chiome degli alberi erano così fitte da lasciar passare che pochi raggi di luce. Iniziò allora a chiedersi dov’era finito, quando all’improvviso qualcosa di grande e colorato lo scavalcò da parte a parte.
“Ciao, come ti chiami” abbozzò la lepre.
Lui, incredulo: “Sono Tom e tu, come di chiami?”
“Io sono Azzurra la Lepre. Che ci fai qui Tom?”
“Sono andato via di casa”.
“Interessante. Vuoi una carota Tom? Ne ho a decine, le prendo da un orticello a qualche balzo da qui”.
Il giovane si ridestò in un attimo: “Non mi dirai che sei tu che ci mandi in rovina il raccolto?”
“Gnam, gnam, può darsi”, rispose il quadrupede.
“Perché lo fai, noi viviamo di quello”, lo capisci questo?
“E tu, perché’ ci dai la caccia insieme a quell’uomo rozzo, che immagino sia tuo padre?”
“Sono obbligato a farlo finché vivo con lui. Tu non puoi capire. Sei una lepre e le lepri non possono capire certe cose”.
“Hai ragione”, continuò la lepre passando a un cavolfiore.
“Vuoi del cavolo, Tom?”
“Ecco vedi, sei come mio padre tu, non ascolti mai!”
Non fece nemmeno in tempo a dire quelle parole che una poderosa zampata nel sedere lo sollevò da terra per la seconda volta in un giorno.
“Senti un po’ ragazzino impertinente. Ho idea che tu abbia una visione del mondo leggermente limitata. Non dire mai più a una lepre una cosa del genere: Non paragonarci mai a tuo padre, mai!”
Il giovane ancora stordito per lo strano evento, cercò di fare mente comune. Dopo ore e ore di dialogo con Azzurra la Lepre faticava ancora a capire il nocciolo della questione. Il dialogo si fece parecchio serrato. Era ormai pomeriggio inoltrato, il padre lo attendeva a tavola come di rito, ma quel giorno il giovane aveva deciso che quelle storie erano più importanti degli aneddoti di caccia.
“Questa è..?”, l’uomo alla donna.
“La quarta, se non sbaglio!”, la donna all’uomo.
“Va bene, altre tre e anche per oggi abbiamo finito”.
Il pendolo segnava le ventidue, ma di Tom non v’era traccia alcuna.
“Lascialo sfogare per bene”, lui a lei.
“Si, ma non ha mai fatto così tardi prima d’ora”, lei a lui.
“Sarà per quel calcio nel culo che gli ho dato stamattina. Se l’è meritato tutto! Era da tempo che lo stava cercando e oggi l’ha trovato!”
“Non saprei, questa volta inizio a preoccuparmi. Sei sicuro che non ci sia dell’altro?”
L’uomo non rispose, se non alla sua maniera: “Donna, è adulto ormai, deve assumersi la responsabilità delle scelte che porta avanti”.
Passarono i giorni, e in città non si parlava che di Tom, al punto che le battute di caccia si trasformarono in vere e proprie ricerche. Sconvolti per il nefasto evento, in molti iniziarono a chiedersi cosa fosse realmente accaduto. I giorni diventarono settimane e le settimane mesi, ma Tom, come promesso a sé stesso quel giorno, non tornò più a casa.
“Questa è..?”, l’uomo alla donna.
“L’ultima!”, la donna all’uomo.
“Va bene, altre tre e anche per oggi abbiamo finito”.
“No, rispose lei. Questa è l’ultima in tutti i sensi”.
L’uomo sgranò gli occhi e stappò per bene le orecchie, come a volersi accertare di quanto udito e soprattutto del fatto che quelle parole fossero davvero uscite dalla bocca della mingherlina creatura che gli stava davanti.
“Non osate parlarmi a quel modo, donna!”
“Mio signore, la verità punge e lo sapete quanto me: abbiamo commesso un errore e nascondervi dietro al muto dolore non muterà di certo le cose”.
“Voi state delirando mia signora”.
“Sia ben chiaro che io non sono una vostra proprietà: essere servili non implica l’esser servi, mio signore”.
“E con questo cosa volete dire?”
“Voglio dire che Tom, ovunque sia finito, è ora libero! Quante volte vi ha detto che odiava la caccia? Dieci, cento, mille? Quante volte lo avete ascoltato? Ha fatto la sua scelta, una scelta obbligata dalle circostanze, o forse dal fatto che né voi, né io, abbiamo saputo ascoltare il suo urlo interiore. Gli abbiamo imposto un dover fare che non era il suo, lo abbiamo ingabbiato nel credo del fucile. Ora ne paghiamo entrambi le conseguenze. Voi avete perso un figlio, rendetevene conto, un figlio, non una lepre, né un coniglio … un figlio!”
L’uomo, stordito da quel termine che gli suonava familiare, iniziò a frugare con famelica ingordigia nella stanza dei ricordi. Prese a svuotare tutti gli armati senza trovare alcunché’. Le pareti di quella stanza immaginifica, erano piene di trofei di caccia, di scoppiettanti rumori di spari e talvolta di abbaianti cani, di profumi che sapevano di cacciagione, ma nulla di più. Poi, a terra, in un angolino fecero dapprima capolino un paio di calzette bianche, una cuffia di lana, una piccola culla a dondolo. Il passato che aveva deciso di mettere da parte, lo travolse in maniera così impetuosa da farlo accasciare a terra. La moglie udì il quasi teatrale tonfo. L’uomo giaceva ora a terra esanime. Quel dolore fu troppo persino per lui.
Doppiamente vedova, la donna decise di dare un senso compiuto alla sua nuova vita: le armi non avrebbero mai più fatto parte dei cimeli di famiglia. Vendette tutti i trofei del marito, tenendosi dentro quanto di più prezioso: i momenti passati in vita con lui, non sempre colmi di sorrisi e speranze, ma pur sempre ricordi, quelli che avrebbe conservato nel profondo per sempre.
A quattro anni esatti dalla scomparsa di Tom la fattoria riprese a prender vita, quando a un certo punto accadde qualcosa che sapeva di magico.
“Ho sognato di vivere in casa con due lepri e ti prego di non ridere Ester, ma una si chiamava Tom e l’altra portava il nome del mio compianto George e andavano d’amore e d’accordo”.
“Santi lumi”, esclamò Ester “è un sogno atroce Grace!”
“No”, rispose lei, “al contrario, è un sogno bellissimo, la causa di tanto dolore ha assunto una forma simbolica, quello che un tempo li separava, ora li unisce nel ricordo. Penso proprio che adotterò due lepri dando loro una concreta identità, perché in cuor mio, Ester, al momento è proprio ciò che sento. Il senso della vita, mi chiedo, non è forse il decidere noi stessi che senso darle? Ho commesso degli errori in passato: ho fatto decidere a George il senso della nostra esistenza, ho fatto decidere a George il senso della vita di Tom. Non decidendo a mia volta di porre un limite alle sue decisioni unilaterali, ho scelto di non scegliere e guarda com’è andata a finire. Ora che ho compreso, posso scegliere e poco mi importa delle dicerie delle persone giù in città. La ragione ha le sue leggi Ester, ma io oggi, con te, parlo di altre ragione, non quelle della mente, mi riferisco alle ragioni del cuore. A quelle, amica mia, non si comanda”.
Per la pria volta in vita sua, Grace si sentì rispondere: “Oggi mi hai fatto un regalo che porterò per sempre nel cuore, un bel dono da tenere nella stanza dei ricordi”.
Era quasi mezzogiorno, quando appena fuori dell’uscio della porta d’ingresso si udì:
“Dai, forza Tom, muoviti”.
“Eccomi, eccomi”.
Non fece nemmeno in tempo a dire, sto’ aspettando che arrivi … che Ester aprendo la porta si ritrovò davanti un bellissimo batufolo dal folto pelo con due zampette fuori dalla norma.
“Ma questo è un segno del destino” prese lei a ridacchiare a più non posso.
Tom venne subito preso in braccio e accudito dalla carezze della madre.
“Tu non mi stai ascoltando”, disse il secondo leprotto ad Azzurra la Lepre, quando un possente calcio nel culo la fece rimbalzare fino all’uscio della porta.
Era George, anche lui di ritorno a casa, certo in una forma che mai si sarebbe mai aspettato o immaginato, ma pur sempre a casa, felice e contento di esser lì, con la nuova consapevolezza che delle volte, pur non volendolo, la vita interviene, dandoti quel giusto calcio nel sedere, utile a farti capire la vera essenza delle cose, il senso dell’essere e non dell’apparire, il dono del saper ascoltare il solfeggio dei piccoli segnali che posson trasformare momenti banali, in piccole favole di vita vissuta.

7 commenti su “Azzurra la lepre e Tom il bambino”

  1. Ho apprezzato alcuni passaggi di questa storia. Come nel racconto precedente, anche questa si presta a essere una fiaba per adulti.
    Vedo che altri hanno notato quello che ho notato io: qualcosa che non funziona nei dialoghi. Soprattutto nel discorso della madre di Tom. Registri diversi che a mio parere andrebbero uniformati.
    Bello il messaggio!

  2. Alessandro Pilloni Ser. P

    Mi ha lasciato un po’ interdetto, per i dettagli più che altro. La madre del ragazzo, a esempio, da contadinotta del medioevo, parla in maniera troppo sofisticata. Avrei indagato di più la trasformazione del ragazzo. Mi ha dato l’impressione di una buona idea sfruttata poco.

    1. Ammetto forse di essermi distratto un attimo, ma il tempo storico non è il medioevo, ma il 1900, non fosse altro che i fucili non credo fossero presenti in tale periodo. Eh, si, il messaggio li è semplice “non sottovalutare mai i personaggi secondari”. Comunque grazie del feedback, sempre gradito. 🙂

  3. A mio parere, ci sono alcune incongruenze nel registro dei dialoghi: il padre a volte usa un certo tipo di linguaggio, a volte un altro.
    All’inizio del racconto ho fatto un po’ fatica a seguire il punto di vista.
    A parte queste mie piccole considerazioni, un buon gioco.

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