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Dove stai andando

Un racconto di Johnny Delano

L’acciottolio evase fuori dalla cucina, rimbalzò sulle scale e s’insinuò nello spiraglio della porta. Mi rigirai nel letto, sospirai irritato e aprii gli occhi. Mi gettai un’occhiata da sopra la spalla per vedere quanto fosse grigia quel giorno la luce. Non più de solito. Dell’intensità giusta per farti desiderare di andare in letargo fino in primavera. Eravamo sotto Natale e un’altra pagina del calendario stava per adagiarsi al suolo come l’ultima foglia tremolante su un albero. Un altro anno calpestato e buttato nel cesso. Mi sgranchii aspettando di sentirmi trapanare l’orecchio da un altro tintinnio di piatti e pentole e non appena lo sentii buttai da un lato la coperta e mi alzai prendendo a pugni l’aria. Puzza di pesce fritto di primo mattino. Arricciai il naso e mi avviai a passo felpato verso il bagno. Lanciai un’occhiata fuggevole dentro la cucina. Sfrigolio o no, era impossibile che mi sentissero camminare, a meno che non fossi io a volerlo. Mia zia trafficava davanti ai fornelli facendo un baccano infernale. Mi lavai i denti, mi rasai la barba e le ascelle, mi profumai e andai in cucina. Lo zio è fuori? chiesi. È dagli animali, disse lei. Annuii e mi misi seduto. Per me va bene anche solo il caffè, dissi. Inspirai cercando di captare l’aroma dei vapori bollenti che si sprigionavano dal bricco, ma l’odore di fritto appestava l’aria. Mangerai come tutti gli altri, replicò lei senza voltarsi. Non stetti a discutere. Avrei piluccato un po’ di quello, un po’ di quell’altro. Probabilmente avrei anche assaggiato un pezzettino di pesce. Avevo difficoltà a rimpinzarmi di mattina. I miei zii non avevano questo problema. Grassi non erano, ma erano forti e corpulenti. Erano abituati a mangiare tanto. Servivano calorie per zappare. I contadini hanno sempre qualcosa da fare, in qualunque stagione dell’anno. Ti serve una mano? le domandai. Sta’ seduto, mi fece lei. Si voltò. Ressi il suo sguardo inquisitore. Stava cercando di capire se ero andato a bere l’altra sera. Quando ero rincasato non era neanche mezzanotte e il silenzio che mi aveva accolto in casa mi aveva fatto credere che stessero dormendo. Mia zia non riusciva mai ad addormentarsi prima dell’una. Era da un po’ che non la vedevo così nervosa. Rumorosa lo era sempre stata, ma di solito la trovavi di buonumore, sorridente e cordiale, seppure non senza una vena di ipocrisia che in pochi riuscivano a smascherare. Lo zio doveva averla fatta arrabbiare, ci scommettevo. Se fosse stato per via di un malore, non l’avrebbe dato a vedere.

Lo zio entrò senza salutare. Si versò dell’acqua in un grosso tazzone e lo bevve tutto d’un fiato. Un bicchierino di vino? scherzai. Lui abbozzò un sorriso. Era un tipo ridanciano, spiritoso, di vedute strette e non privo di una certa meschinità che certe volte più che spingerti a compatirlo ti induceva a disprezzarlo con tutto il cuore. Acciuffai un biscotto e lo sbocconcellai controllando i messaggi sul cellulare. A tavola, annunciò la zia, sebbene io e lo zio ci fossimo già accomodati. Non c’era nessun altro in casa e a quell’ora difficilmente si sarebbe presentato qualche ospite. Il gatto non la smetteva di miagolare. Se non ci dai un taglio ti metto dentro un sacco e ti porto via, lo minacciò lo zio. Lascialo, lo difese la zia. Ha fame anche lui. Quanti topi ha cacciato stanotte? volle sapere lui. Almeno un topo è mai riuscito ad acchiappare? È un cagasotto. Ormai si è sparsa la voce. I gatti di tutto il vicinato vengono qui e gli fanno sparire dalla ciotola anche le briciole. Lei ruppe un angolino di pesce e lo lasciò cadere ai suoi piedi. Il gatto lo fece fuori in un attimo. Riprese subito a miagolare. Guardai oltre il tavolo e lo vidi elemosinare il cibo con le zampe anteriori appoggiate sulla gamba della padrona. Pezzo di merda, s’infuriò lo zio. Lo afferrò per la pelliccia, si alzò e s’incamminò spedito verso la porta. Il gatto non emise neppure un suono. Mi girai mentre apriva la porta e scaraventava il gatto fuori nella neve. Scoppiò a ridere rozzamente e richiuse la porta con un tonfo. Tieni. La zia gli tese una piccola ciotola con della polenta che avevamo mangiato la sera prima. C’era della panna sopra. Portagli questo. Portaglielo tu, ribatté lo zio rimettendosi seduto. È il tuo tesoruccio, non il mio. Lei gli spedì una lunga occhiata offesa. Si alzò e andò fuori con la ciotola. La sentii chiamare il gatto. Vieni qui, idiota, disse spazientita. Ti ho portato qualcosa di buono. Lo zio stava scuotendo la testa ficcando tra le fauci grossi bocconi di pesce e di polenta condita con la panna acida. Tua zia ha il cuore troppo tenero. Preferii non commentare, anche se mi sarebbe piaciuto rinfacciare a tutti e due la loro indifferenza nei confronti dei due cani a cui davano da mangiare solo quando si ricordavano di averli, i cani. Spesso quelle povere bestie dovevano farsi bastare un tozzo di pane per un giorno intero. Con il gelido ciclone che imperversava da quasi dieci giorni era difficile perdonargli quella dimenticanza. Però quando parlavano al telefono con il figlio che viveva all’estero con la moglie e vedevano il suo cagnolino di razza andavano subito in brodo di giuggiole.

Oggi hai il colloquio, disse la zia quando tornò a tavola. Già, fece lo zio. In realtà si stava rivolgendo a me. Tra poco ci sarà l’autobus, dissi. Tuo zio deve uscire, mi informò la zia. Ti può accompagnare lui con la macchina. Non posso, disse lo zio. Mi hanno chiamato dalla scuola. Ci devo andare subito. C’è un tubo che perde nel bagno delle femmine al secondo piano. Ti ha chiamato Tullio? Sì. Gli hai chiesto della paga? Di aumentarmela? Lo zio succhiò un rimasuglio di carne da una spina. Non se ne parla neanche, disse. La zia scambiò un’occhiata con me. Io spostai lo sguardo sulla finestra. Alloggiavo da loro dall’inizio di settembre. Benché fossi disoccupato, contribuivo puntualmente alle spese. Solo io sapevo a quanto ammontava la somma che avevo messo da parte negli ultimi anni facendo qualcosa in cui ero piuttosto bravo, ma di cui mi ero stufato in fretta. I prezzi del gas e dell’energia elettrica a novembre avevano subìto una spaventosa impennata, perciò quando ci bombardavano con le cifre spropositate delle bollette dovevo versare la mia parte. Mi piaceva stare da loro perché la casa era spaziosa, non dovevo cucinare e disponevo di un sacco di tempo libero per studiare senza essere interrotto continuamente da mio padre che mi chiedeva ogni cinque minuti di fare qualcosa per la casa o di andare da qualche parte a sbrigare una commissione. Quando avessi trovato un impiego sarei andato a vivere per conto mio e non avrei cagato più nessuno, nemmeno di striscio. Finii il caffè e mi alzai. Devo andare. Non hai mangiato lo yogurt. Ho mangiato il pesce però. Mia zia mi indirizzò un’occhiata ironica. Mangi come un anatroccolo. E come dovrei mangiare? Come un’anatra, rispose mio zio e mi concesse un mezzo sorriso. Ricambiai e quando mi girai per infilarmi il giubbotto alzai gli occhi al cielo. Quando torni? Mi strinsi nelle spalle. Non lo so, dissi. Stasera, credo. Sta’ attento, si raccomandò. Certo, dissi sentendo crescermi dentro un’improvvisa bolla di amarezza. Chi volete prendere in giro? Non v’importa niente di me. Salii un attimo di sopra come se avessi dimenticato qualcosa, malgrado avessi preso tutto ormai. Poi uscii dalla porta del balcone senza neanche salutare. Se non avessimo dovuto rivederci mai più, non volevo che le mie ultime parole fossero un saluto di circostanza.

Ciao, Dino, mi salutò Elisa Grande appena ebbi svoltato l’angolo. Guardai alla mia destra. Dalla porta aperta del cancello una ragazza incappucciata stava spingendo fuori il bidone della spazzatura. Mi fermai per vedere che voleva, perché bisognava non conoscerla per credere che il suo saluto fosse solamente un atto di gentilezza. Sentiamo, dissi. Che cosa, fece lei tirando indietro il cappuccio. Ciocche di capelli biondi le spiovevano sulle spalle. Cos’è che vuoi stavolta? Mi asciugai il naso guardandola con un’espressione impaziente. Lei sbuffò. Quanto sei stronzo, mi apostrofò. Non si usa più salutare? Gettai un’occhiata al bidone dell’immondizia. Porti fuori la spazzatura, ma che brava. A differenza di qualcun altro, replicò lei. Corre voce che ti fai portare la colazione a letto. Portare fuori la spazzatura deve essere la cosa più eccitante della tua giornata, la canzonai di rimando. E a proposito di saluti. Ciao e vaffanculo. M’incamminai seguito dal suo augurio di finire a San Egidio con un braccio rotto. Girai su me stesso e presi a camminare all’indietro. Ti ho salvato il culo quella volta, le rammentai. Mi devi un pompino. Lei raccattò una manciata di neve, la schiacciò tra le mani e me la lanciò addosso. Mi scansai colpendo la palla con il piede. L’ altro piede slittò e mi ritrovai a terra con un dolore lancinante al gomito. Brutta figlia di puttana, ringhiai. Lei scoppiò a ridere. Qualche secondo dopo un’altra palla di neve mi beccò dritto in faccia. Fa’ meno lo stronzo la prossima volta, gridò lei aspramente e rientrò nel cortile richiudendo la porta del cancello con grande fracasso. Mi passai una mano sulla faccia bagnata e mi frizionai il gomito. Flettei il braccio assicurandomi di avere tutte le ossa intere, dopodiché mi levai in piedi e lanciai un’occhiata torva alla residenza dello sbirro che aveva per figlia una troia bugiarda e maligna e con una buona mira per aggiunta. Guardai il fuoristrada di mio zio attraversare l’incrocio e proseguire in discesa. Consultai l’orologio. Potevo anche fare con calma perché l’autobus delle nove l’avevo perso e quello successivo sarebbe passato tra venti minuti.

M’incamminai lungo il marciapiede sbriciolato del viale che i ragazzi del comune avevano dissepolto dalla neve. Tenevo lo sguardo incollato a terra e quando lo alzai un momento mi accorsi del fuoristrada che mi aveva appena superato. Lessi la targa per sincerarmi che si trattasse davvero di mio zio. Non era l’unico nel nostro paesino a guidare un Terrano grigio. Lo seguii con lo sguardo mentre arrivava in fondo al viale e poi svoltava a destra. Lo vidi fermarsi davanti all’edificio della posta. Una donna vestita elegantemente insieme a un bambino di tre o quattro anni erano appena usciti dal casotto adiacente all’ufficio postale e si stavano avviando verso la macchina. Li guardai montare sul sedile posteriore. Sarebbe stato sbagliato credere di poter fare due più due giudicando solo da una scena. Eppure. Ma tu guarda che farabutto, dissi con divertita perplessità. Ha un’altra famiglia. Era sbagliato pensarlo, ma pensare a una spiegazione più plausibile non mi riusciva proprio. Mi tornò in mente mia zia e la sua faccia acida. Di rado cucinava il pesce di mattina. Che fosse un messaggio allusivo per lo zio? Sapeva? Che cosa aveva cercato di dirgli? C’è puzza di fica in questa casa. E non è la mia. Mi scompisciai scuotendo la testa. Mi voltai a guardare indietro. Sarei potuto tornare a casa e spiare mia zia attraverso la finestra. Guardarla mentre piangeva, anche se non era una donna dal pianto facile. Decisi che non mi riguardava. Da quando in qua un uomo non ha il diritto di avere due relazioni? Attraversai il viale. Ebbi un po’ di tempo per riflettere. Arrivato alla strada principale decisi che, un colloquio in più o uno in meno, non avrebbe fatto alcuna differenza. A quanto pareva, intendevo rimanere disoccupato per un bel pezzo. Mi avviai in centro. Volendo, avrei potuto prendere l’autobus anche lì.

È arrivata tua cugina? mi domandò uno di nome Luciano. Stava fumando davanti alla vetrina del negozio di ferramenta. Lo guardai senza capire. Valeria? Quando? L’ho vista in macchina con tuo zio. Distolsi lo sguardo perché non potesse vedere la mia faccia divertita. Non mi risulta, borbottai trattenendo una risata. Il figlio è piccolino ancora, fece lui. Ne ha un altro più grande, no? Ho sentito che sta facendo un corso per pasticcieri. Assentii con un mugolio. Quello è bravo in una cosa sola, dissi. Sniffare. Anch’io sniffavo, mi confidò Luciano. Colla, lacca. È per questo che sei diventato strabico? Luciano tirò una lunga boccata e la soffiò da un angolo della bocca. Strinse gli occhi. Te l’hanno detto che sei uno stronzo? Stamattina sei il terzo. In realtà era il secondo perché mio zio si era limitato a comunicarmelo unicamente con lo sguardo e quel mezzo sorriso. Saluta tua cugina da parte mia. Se la vedo, dissi e m’incamminai. Superai la piazza e mi fermai davanti al cancello aperto della scuola. Per le successive due settimane l’edificio avrebbe sentito la mancanza degli insegnanti e degli alunni e del suono della campana.

Mi voltai per vedere chi mi voleva. Ciao, Carlo, dissi. Che c’è, che vuoi? Ce l’hai una sigaretta? chiese lui. Chiedilo a Luciano. Io non fumo. Lui non si arrese. Ce li hai due euro? Sbuffai, perlustrando con gli occhi la facciata della scuola. Non ce li ho, dissi. E tu ce li hai? Te li ho appena chiesti io, stronzo. Non me lo ricordavo così insolente. Era il quarto a darmi dello stronzo in meno di un’ora. Mi sarei pure fatto una risata se non fosse che da lui gli insulti non potevo accettarli proprio. Gli indirizzai un’occhiata seria. Che hai detto? Tua zia le prepara ancora le sfogliatelle con la ricotta? volle sapere lui. Se fosse stato un altro avrei pensato che si stava tirando indietro. La sua ottusità era la valvola che regolava la sua audacia. Prima o poi quell’audacia l’avrebbe portato a San Egidio. O al cimitero. E se fosse? dissi. Tanto non te le puoi permettere. Lui s’incupì. Non sono povero, stronzo. Feci un sorrisino sarcastico. Sei peggio che povero. Sei una sanguisuga. Lui mi afferrò per il giubbotto. Ti taglio la faccia, stronzo. Mollami il braccio, gli intimai cercando di liberarmi con uno strattone. Lui mi piantò una mano sotto la mandibola e mi sputò in faccia. Brutto pezzo di merda, ruggii fuori di me. Mi divincolai e gli mollai una testata. Cadde lungo disteso e siccome la sua mano era ancora stretta intorno al mio giubbotto finii sopra di lui.

Sentii il grido indignato di una donna seguito dal richiamo severo di un uomo. Pochi secondi dopo sentii gli spallacci premermi sulle clavicole quando qualcuno afferrò il mio zaino e tirò indietro. Con le mani stavo cercando di schiacciare la faccia di Carlo. Dino, ma che stai combinando? domandò mio zio. Raccattai una manciata di neve e me la spalmai sul viso. Quell’idiota mi ha sputato in faccia, sbottai. Rottinculo di un barbone. Mi asciugai gli occhi e sbattei le palpebre cercando di mettere a fuoco la faccia di mio zio. Mi girai a cercare Carlo e mi sorpresi di vederlo a metà strada tra la scuola e la piazza. Che ci fai qui? s’interessò lui. Non stavi andando in città? Non avevi un colloquio? Ci stavo giusto andando, risposi seccamente dando una manata ai pantaloni. Mi scrutò con un’espressione severa. Ressi il suo sguardo per qualche secondo e alla fine guardai altrove sentendomi riempire di autentico disgusto. Se credeva di poter essere l’unico ad avere dei segreti si sbagliava. Ci vediamo stasera, disse. Non risposi. Mi avviai verso la piazza senza voltarmi. Ero sicuro di avere ancora addosso il suo sguardo indagatore. Magari stasera mi fermo in albergo, pensai. E mi prendo una sbronza. Il mio conto in banca non si era ancora azzerato. Mi potevo permettere tante cose e mi divertiva sapere che quasi tutti quelli di mia conoscenza fossero convinti del contrario.

Notai un gatto seduto su uno dei pilastri del recinto della scuola. Lo sguardo fisso sul viavai della gente in piazza. Mi chinai, raccolsi un po’ di neve e la plasmai fino a formare una figura che si avvicinava a una palla. Mirai alla testa. Il gatto volse il capo con un movimento lento e placido, come quello di una civetta. Lo mancai di almeno mezzo metro. Sogghignai. Mi tenne d’occhio mentre mi rimettevo in marcia, ma non aveva affatto un’aria diffidente o impaurita. Potevo quasi immaginare l’idea che si era fatto di me. Stronzo. Il pensiero mi strappò una risata.

6 commenti su “Dove stai andando”

  1. Mi è piaciuto un sacco come è scritto! Davvero, complimenti.
    Mi stanno sulle palle praticamente tutti, per cui potrei dire che hai fatto centro, se non fosse per la zia… Alla fine simpatizzo per lei, stronza eh, ma un po’ meno degli altri.

  2. indiscutibilmente scritto bene. Senza dubbio un incipit interessante e una buona caratterizzazione. Mi è sempre piaciuto l’uso di rinunciare alle virgolette per inserire i dialoghi dentro la narrazione.
    Ma è solo, come dire, un contesto. Una presentazione, una buonissima prova di scrittura, una buona caratterizzazione diretta, ma dal punto di vista del gioco, è tutto ciò che si regge in equilibrio da sé, senza sforzo.
    Bello da leggere, ma, diciamo, mira facile con una rosa larga. 🙂

    Comunque complimenti.

  3. Ciao! Ho apprezzato molto la tecnica con cui è scritto: ne hai da vendere!
    Fatico un po’ a entrare in empatia con lo stronzo (e sette, contando anche Seme Nero), ma questo credo che sia un limite mio. Voglio fare una rilettura con più calma e aggiornerò con un nuovo commento.

  4. Sulle prime ho pensato che ti piacciono un sacco gli aggettivi e poco le virgolette XD
    La lettura mi ha preso, scrivi molto bene! Lo dico perché pur essendo il narratore uno stronzo (e fanno sei) riesci a gestire bene il suo punto di vista.
    Ottima prova!

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